Interpretare e raccontare il comportamento della Germania e dei tedeschi con le logiche, e le unità di misura, italiane è un errore gravissimo: però l’accordo annunciato ieri tra il potente sindacato dei metalmeccanici IgMetall e gli industriali del settore per il territorio del Baden-Wuerttenberg ha una valenza che può anche essere letta in un’ottica significativa per il nostro Paese. La notizia è semplice. Ai 900 mila lavoratori interessati – nella regione si trovano i principali stabilimenti di Daimler e Porsche – viene riconosciuto un aumento di stipendio in busta del 4,3%. Il che non stupisce più di tanto, sia alla luce delle ottime performance degli ultimi due anni, sia considerando le attese ambiziosamente positive che si riscontrano per i prossimi.



Quel che colpisce è un’altra cosa: la componente di flessibilità che si è deciso di inserire nell’accordo. I lavoratori acquisiscono il diritto di accorciare la settimana lavorativa a 28 ore, dalle regolari 35, per un periodo massimo di due anni, su base volontaria naturalmente. E la settimana accorciata potrà essere chiesta più di una volta, durante la carriera lavorativa. Per contro, le aziende potranno aumentare la quota di dipendenti che vogliono la settimana di lavoro a 40 ore. La riduzione dell’orario di lavoro avverrà per periodi minimi di 6 mesi e massimi di 24. Ma chi la chiederà per comprovate ragioni familiari, come occuparsi dei figli piccoli o di parenti malati, oppure chi svolge un lavoro usurante, a fronte della riduzione dell’orario non subirà neanche il taglio dello stipendio. Un punto su cui sindacati e aziende si erano scontrati duramente. In più, se lo preferirà, potrà rinunciare all’integrazione del salario (da quello “meritato” in 28 ore a quello teorico di 35) e prendere in cambio otto giorni di ferie in più.



Da parte loro le aziende hanno ottenuto di poter elevare decisamente la percentuale di lavoratori con orario pieno che possono impiegare anche a 40 ore, sempre su base volontaria; e rispetto alle richieste iniziali del sindacato calcolano di aver aumentato solo dell’1,5% il costo del lavoro per unità di prodotto rispetto alla richiesta originaria del sindacato e rispetto al tetto del 2% indicato dalla Bce.

Dunque un buon accordo, con più flessibilità per entrambi i fronti. Fatto, però – non dimentichiamolo – grazie all’abbrivio di un andamento economico forte, a sua volta perseguito con la politica monetaria che il governo di Berlino ha saputo imporre a tutta Europa, allo scopo di incrementare sempre di più l’unico parametro di Maastricht su cui la Germania è clamorosamente inadempiente, che è il surplus della bilancia commerciale. Diciamo che i tedeschi fanno i grandi sulle nostre spalle: il destino dei vinti.