Il destino della riforma delle pensioni del 2011 è certamente uno dei temi che appassiona di più il dibattito politico dopo lo tsunami elettorale del 4 marzo. I conduttori e gli ospiti dei talk show ricordano quei personaggi che, nella poesia, osservano la quercia caduta mentre si affannano a fornire dei dati relativi agli oneri che l’azzeramento comporterebbe e a immaginare delle soluzioni alternative. Per quanto riguarda il primo aspetto, in questa settimana sono circolate stime molto autorevoli tutte protese a destare preoccupazione per la tenuta dei conti pubblici: stime, tuttavia, necessariamente approssimative fino a quando non saranno tracciate nero su bianco le nuove norme.



Abrogare tout court la riforma Fornero non avrebbe senso e non risolverebbe neppure i problemi che stanno a cuore agli abolizionisti. Nel pacchetto di misure contenute nel comma 24 del decreto Salva Italia è inclusa, per esempio, l’estensione pro rata del calcolo contributivo a partire dal 1° gennaio 2012: una disposizione che sarebbe coinvolta, anch’essa, dalla smania iconoclasta, nonostante che da noi il metodo contributivo sia divenuto – nel dibattito – la cartina di tornasole dell’equità sociale. Gli abolizionisti, poi, avrebbero un’amara sorpresa: la norma “nemica del popolo” riguardante l’aggancio automatico dell’età pensionabile all’incremento dell’attesa di vita non scomparirebbe, perché già preesisteva – sia pure in forme più graduali – al riordino del 2011.



Infine, non si comprende – visto che non se ne parla – quale sarebbe la sorte del trattamento di vecchiaia, dal momento che – anche in questo caso – era avviato un processo di unificazione di genere che la “perfida” Fornero si è limitata ad accelerare. Resterebbero poi da definire i rapporti con le diverse tipologie di Ape (sperimentali fino a tutto il 2019), con la disciplina vigente sui lavori usuranti e disagiati, nonché con l’uscita di sicurezza – ormai di carattere strutturale – riguardante i cosiddetti lavoratori precoci. Insomma, a intervenire con l’accetta o con la ruspa si produrrebbero delle lacerazioni nel fragile tessuto del sistema pensionistico che sarebbe bene evitare, nell’interesse stesso dei cittadini che hanno premiato il M5S e la Lega nel loro livore contro la riforma Fornero.



Del resto anche i governi a ispirazione populista non possono fare miracoli e moltiplicare i pani e i pesci, ma sono costretti a misurarsi con i vincoli oggettivi di un bilancio pubblico e con tutti i parametri – a partire da quelli demografici – che condizionano un sistema di welfare.

Eppure chi si limitasse a ricordare a Luigi Di Maio e a Matteo Salvini che i costi delle misure da loro ipotizzate (si giustappongono) sono insostenibili, tanto da suscitare le reazioni dell’Ue e dei mercati, rischierebbe di incappare in un risentito “non ce ne può fregare di meno”. Sarebbe ora dunque di inserire nel dibattito qualche elemento di merito, facendo osservare che le proposte del M5S e della Lega in tema di pensioni non sono soltanto onerose e destinate a togliere credibilità al Paese, ma sono vecchie e perciò sbagliate. Viaggiano con la testa voltata all’indietro.

Mettendo al centro del loro modello il trattamento di anzianità (quota 100 o 41 anni di versamenti quali requisiti per il pensionamento) restano confinate nella finzione di un mondo del lavoro in via di profonda trasformazione se non persino di esaurimento. In sostanza, esse tutelano le ultime generazioni di baby boomers che – soprattutto se maschi – non hanno particolari difficoltà – per come sono stati sul mercato del lavoro, entrandovi da giovani e rimanendovi a lungo e stabilmente – ad accumulare un’anzianità contributiva significativa a un’età anagrafica relativamente anziana per non dire soltanto matura. Questi stessi requisiti sarebbero, invece, gravosi e difficilmente raggiungibili (oltreché per le donne occupate attualmente) per chi ha cominciato a lavorare da pochi anni o si accinge a entrare nel mercato del lavoro; in breve, per quei giovani che tutti, a parole, vorrebbero tutelare.

In più, agevolando il pensionamento dei lavoratori più anziani si caricherebbero ulteriori oneri sulla spalle delle generazioni future, le quali, per tanti motivi facilmente comprensibili, ma soprattutto demografici, non hanno nulla da temere da un’età pensionabile più elevata e ragguagliata all’attesa di vita (visto che entrano tardi nel mercato del lavoro protetto e sono destinati a vivere più a lungo). Se forze politiche che si proclamano nuove, votate dai giovani, vogliono rovesciare il tavolo su cui poggia il sistema pensionistico, per di più impiegando nell’operazione risorse ragguardevoli, esercitino almeno la fantasia necessaria a dare corso a un nuovo regime maggiormente adeguato alle caratteristiche dell’attuale mercato del lavoro.