La recente rilevazione di Bankitalia ci dice che cresce il reddito delle famiglie – +3,5% ma siamo ancora lontani dell’11% dal picco dei livelli precrisi -, ma aumentano le disuguaglianze. Per la povertà, si tratta di un record storico (23%) e gli squilibri sono in aumento. In situazioni di maggior svantaggio vi sono i nuclei con capofamiglia giovani, stranieri, poco istruiti o meridionali: una persona su quattro è ritenuta a rischio.



Tiene banco, in questo quadro, la querelle attorno al reddito di cittadinanza (780 euro al mese) proposto dal Movimento 5 Stelle. Al di là del fatto che il successo del Movimento non può essere attribuito (solo) a questa proposta, stante l’importante affermazione alle recenti elezioni è giusto valutarne – come si sta facendo – la fattibilità. Il reddito di cittadinanza, sostanzialmente, riconoscerebbe un contributo economico al disoccupato e lo costringerebbe ad accettare gli impieghi che gli vengono proposti, escludendo dallo stesso contributo chi per tre volte rifiuta un’offerta di lavoro. 



Al di là della difficoltà di realizzare la proposta – gli equilibri di finanza pubblica ne verrebbero stravolti – a parere di chi scrive le ombre sono altre. Innanzitutto, il M5S insiste sul ruolo dei Centri per l’impiego: la capacità degli uffici di collocamento nell’intercettare la domanda di lavoro (aziende) è storicamente debole, ci sembrava si fosse fatto qualche passo avanti nella politica del lavoro. Così si torna a più di 20 anni fa, quando per la prima volta (1996) il servizio del pubblico impiego perdeva il suo monopolio a favore degli operatori privati. La Corte europea, in merito al ricorso contro la Job Centre, si pronunciava dicendo che non è giusto che lo Stato italiano operi in regime di monopolio e, soprattutto, nemmeno è in grado di rispondere da solo al matching tra domanda e offerta di lavoro. Non si è sentito Di Maio, nel suo promuovere il reddito di cittadinanza, riferirsi una sola volta alle Agenzie per il lavoro.



In secondo luogo, questo poi il problema maggiore, perché chiamarlo reddito di cittadinanza? Si obietterà che gli altri paesi lo chiamano così. Peccato, però, che in Italia si registri la specificità del lavoro sommerso: quasi 4 milioni di persone lavorano in nero (fonte Istat). Cosa facciamo, gli diamo anche il reddito di cittadinanza? La condizionalità (il venir meno del reddito di cittadinanza se non si accetta il lavoro) nella stragrande maggioranza dei paesi europei non si applica, valgono limiti di tempo. In Italia, l’attuale reddito di inclusione dura 18 mesi.

Ora: la comunicazione per la politica non è un aspetto secondario, perché illudere le persone che in quanto cittadini (e non in quanto cittadini attivi, lavoratori) hanno diritto a un reddito? In un’intervista di maggio 2016 alla TV del corriere.it, Beppe Grillo addirittura diceva che nella società del futuro tutti devono avere diritto a un reddito universale e poi chi vuole lavorare lavora e chi non vuole non lavora. Più che una società del futuro, questa pare una società che non ha le fondamenta. Basta rileggere l’articolo 1 della nostra Costituzione: “L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro”. Oggi, coloro che godono di quest’aurea di innovatori, ci dicono che la Repubblica è fondata sul reddito di cittadinanza. A prescindere dal lavoro.

Restano i problemi della povertà e della disuguaglianza. E, anche, del lavoro nero. Ma non possono essere queste le soluzioni.

Twitter: @sabella_thinkin