Il primo avvertimento è venuto dall’agenzia Moody’s poche ore dopo le conclusioni dello scrutinio elettorale. Il senso era esplicito: se il nuovo Governo si azzarda ad abolire la riforma delle pensioni del 2011 deve mettere in conto un sostanziale abbassamento del rating. Il che, per un Paese che deve rinnovare circa 400 miliardi di titoli all’anno (la Bce ne acquista solo una parte destinata a ridursi progressivamente), non è certo una festa di gala per diversi motivi: perché deve essere credibile per chi è disposto a sottoscrivere e, se risulta meno affidabile, deve aspettarsi un incremento dei tassi di interesse. Altro che reddito di cittadinanza e flat tax!
Ieri si è pronunciato anche il Fondo monetario con un working paper, la cui caratteristica è diversa da quella del comunicato di Moody’s, in quanto si guarda bene dal prendere posizione sui rischi del quadro politico italiano dopo il 4 marzo, ma ragiona sul lungo periodo a prescindere dalle contingenze politiche. Questi studi richiedono tempo e non possono certo essere improvvisati durante un paio di settimane al solo scopo di richiamare all’ordine la terribile coppia Di Maio-Salvini. Il Fmi salta, addirittura, il fosso e afferma che la riforma Fornero non ha messo in sicurezza proprio nulla e che le misure adottate nel 2011 non sono sufficienti.
Come riassume l’agenzia Reuters: “La spesa pensionistica italiana è e sarà anche nei prossimi anni troppo elevata nonostante l’entrata in vigore della riforma Fornero. Per questo occorrono misure tese soprattutto a colpire le pensioni calcolate con il metodo retributivo e quello misto, i criteri di concessione delle pensioni di reversibilità e il basso livello di contributi versati dai lavoratori autonomi”. Lo scenario della spesa pensionistica italiana viene criticato dal Fmi perché basato su ipotesi troppo ottimistiche per crescita dell’economia e dell’occupazione. In particolare quella del Pil supera quella del Pil potenziale.
In sostanza, secondo il Fmi a rendere precario l’equilibrio dei conti pensionistici non ci sono soltanto problemi relativi all’incremento del numeratore (la spesa pensionistica), ma anche a quello del denominatore (il Pil): il primo è destinato a crescere di più, il secondo di meno rispetto alle previsioni e alle aspettative. In più c’è la questione demografica che in Italia viene puntigliosamente ignorata. Non si tratta soltanto di un allungamento dell’attesa di vita che si annuncia superiore a quanto previsto (se ne è avuta una dimostrazione quando si è trattato di fissare i nuovi requisiti del pensionamento in rapporto all’aggancio automatico); è assai più rilevante l’effetto-crollo della natalità (il vero differenziale che ci distingue dagli altri Paesi), il quale inciderà anche sul mercato del lavoro dal lato dell’offerta. Parte del processo di invecchiamento in divenire è spiegato – secondo l’Istat – dal transito delle coorti del baby boom (1961-75) tra la tarda età attiva (40-64 anni) e l’età senile (65 e più). Il picco di invecchiamento colpirà l’Italia nel 2045-50, quando si riscontrerà una quota di ultrasessantacinquenni vicina al 34%.
Le terapie suggerite dal Fmi sono molto severe. Il working paper suggerisce un intervento sulle pensioni calcolate in toto o in parte col sistema retributivo, attraverso il taglio della tredicesima oppure il ricalcolo dell’importo con un metodo meno generoso. Per quanto riguarda i trattamenti di reversibilità – il loro ammontare con un livello del 2,75% del Pil è il più alto in Europa -, gli economisti del Fondo chiedono di fissare un’età minima perché il coniuge vedovo ne benefici e di eliminare la possibilità che ne beneficino altri familiari. In tema di contributi previdenziali lo studio evidenza la disparità tra quelli dei lavoratori dipendenti (al 33% del salario) e quelli degli autonomi e chiede di alzare ad almeno il 27% dall’attuale 24% l’aliquota di questi ultimi. Viene criticata anche la cosiddetta quattordicesima mensilità concessa ai pensionati che ricevono importi modesti (pur avendo una significativa anzianità contributiva). Al suo posto vengono proposti interventi universali anti-povertà.
Ancora una volta il Fmi svolge il ruolo del “cattivo”. Le sue considerazioni non verranno ascoltate in un Paese che, come l’Italia, è convinto di bandire per sempre dal vocabolario le parole austerità e rigore. Speriamo almeno che il working paper serva a consigliare prudenza nel manomettere quanto è stato realizzato negli ultimi anni.