Le app, essere sempre connessi H24, Industria 4.0, fare ormai tutto dal proprio telefonino sono realtà ogni giorno più evidenti. Non si può prescindere da questo dato di fatto. Consapevoli dei tantissimi, indubbi, benefici, e anche di qualche oggettivo rischio. Ma guardiamo più da vicino una realtà aziendale importante, che ha fatto la storia dell’Italia e in particolare del Piemonte: la Seat, storica casa editrice delle Pagine Gialle. 



Fino alla fine dello scorso millennio, vera gallina dalle uova d’oro, fonte di ricchezza per lo Stato – apparteneva infatti al variegato mondo delle partecipazioni statali -, capace di generare un flusso di cassa da fare invidia a industrie meno nobili, come quelle delle armi e della droga. E grazie alle Pagine Gialle, migliaia di piccole e medie imprese hanno potuto farsi conoscere dal mercato, prosperare, svilupparsi e creare nuova occupazione. Un bene per tutti. Poi sono state privatizzate (nulla di male, perché mai lo Stato deve pensare a stampare gli elenchi del telefono?). E lì incomincia la fine: spericolate azioni di pura finanza, reiterate una, due, più volte, utili stratosferici per pochi, spogliazione per molti, fino al concordato preventivo di qualche anno fa, che vede ancora imputati i vecchi manager con l’accusa di bancarotta fraudolenta. 



Intanto si affacciano le nuove tecnologie che ridisegnano il modello della comunicazione, ma Seat era ben attrezzata: dal 1982, pochi lo ricordano, era iniziata l’evoluzione verso il digitale, le Pagine Gialle si trasformano in piattaforma, prima on line, poi gli elenchi su supporto magnetico, i servizi vocali, il web, l’e-commerce, ovvero l’offerta secondo i mutati canoni tecnologici.

Oggi l’azienda sta economicamente bene, i risultati del 2017, appena presentati alla comunità finanziaria, parlano di 26 milioni di euro di utile, di una liquidità importante, di una strategia di sviluppo nei prossimi anni in grado di garantire crescite a doppia cifra. Fantastico, penserà qualcuno. Nella Torino sempre un poco triste e dimessa che cerca faticosamente di uscire dalle secche della crisi, un’impresa in salute, e dunque che assume, che crea ricchezza. No, assolutamente no! Questi risultati sono resi possibili, così sostiene l’attuale proprietà, ricorrendo a risparmi strutturali – cioè duraturi – resi possibili prima dalla cassa integrazione, e ora dagli esuberi reali o indotti (ovvero il paventato trasferimento di circa 250 persone ad Assago, in provincia di Milano). 



Non si tratta di commentare quella che in gergo viene chiamata delocalizzazione interna, bensì di assistere a un fenomeno nuovo, preoccupante: lo sviluppo senza occupazione. La new economy, che tante promesse di benessere aveva fatto, mostra a volte il suo lato peggiore, quello finanziario. Infatti, diffusa la notizia degli esuberi, dopo un breve assestamento del valore dell’azione in borsa, resi noti i risultati complessivi, il titolo ha cominciato a salire. Il capitale di nuovo si contrappone al lavoro? Ma il capitale da solo non è ricchezza; la disponibilità di lavoro, spesso, non è sufficiente, servono idee, organizzazione, e anche capitali. Una sinergia, un lavorare insieme. Perché lavorare non è solo guadagnarsi onestamente di che vivere, ma è prima di tutto dare dignità all’uomo, al suo innato desiderio di costruire, di essere protagonista, di generare intorno a sé il bene che desideriamo e di cui siamo fatti, per noi e per i nostri fratelli uomini.

Questo è lo spirito che ha animato alcuni dipendenti ed ex dipendenti a prendere sul serio la propria responsabilità nell’impresa: costituire una associazione di azionisti dipendenti, per formulare proposte in cui capitale e lavoro possano interagire nella governance, dialogando direttamente con la proprietà in modo costruttivo e propositivo.