Dopo il voto del 4 di marzo e la pesante affermazione di chi, non senza motivo, mette in discussione la funzione della rappresentanza sociale, sono sempre di più coloro che si chiedono “a cosa serve il sindacato?”. Posto che sarebbe troppo semplice rispondere che la contrattazione collettiva è ciò che quotidianamente determina regole e comportamenti di gran parte di chi lavora – di più di quanto lo faccia il Jobs Act per esempio – basterebbe pensare che, solo in queste ultime ore, si è chiusa positivamente la vicenda Alstom, la società Iuvo del gruppo Fca inizia una sperimentazione dello smart working sull’80% dei dipendenti, la vertenza Ericsonn si chiude con 113 posti di lavoro salvati, la Engie rinvia la rescissione dei contratti elettrico e gas-acqua precedentemente ufficializzata, si prosegue con un lavoro certosino verso il giro finale del caso Ilva, ecc.



Ciò dovrebbe contribuire a chiarire che, molto difficilmente – al di là dei limiti che le Parti sociali hanno dimostrato in questi anni di trasformazioni del lavoro – si potrà prescindere dal sindacato. Non solo in Italia, ma in tutte le economie avanzate. Perché la rappresentanza del lavoro e delle persone è indispensabile, anche soltanto nella banale (nel senso di quotidiana) gestione delle relazioni di lavoro.



Detto questo, è certamente auspicabile un cambio di rotta. Ma è alquanto pericoloso che si pensi di risolvere con la legge, in modo forzoso, i problemi che la rappresentanza del lavoro lascia aperti. Chiaro, tuttavia, che un intervento del legislatore sui criteri di rappresentatività che possa accogliere ciò che le Parti hanno concordato (per esempio col Testo Unico 2014) o concorderanno, può far bene al sistema, così come peraltro auspicato dal recente accordo interconfederale.

È per questi motivi, in sintesi, che va guardato con interesse ciò che sta per succedere nelle organizzazioni sindacali con i loro congressi. La Uil è nel pieno dell’attività congressuale, le categorie stanno rinnovando le loro strutture. E a giugno sarà il turno della Uil nazionale che dovrebbe vedere riconfermata la guida di Carmelo Barbagallo.



Laddove invece si prevedono novità, come più volte già scritto su queste pagine (anche in tempi non sospetti…), è in casa Cgil. Il sindacato di corso d’Italia – in vista del Congresso di gennaio 2019 – ha iniziato al suo interno una discussione vivace, anche a seguito del patto della fabbrica (così è chiamato il recente accordo interconfederale). A proposito di Cgil, si registra un fatto che per molti sarà scontato, ma che del tutto scontato non è. Per la prima volta quest’anno, in occasione delle elezioni politiche, Susanna Camusso è stata molto “sindacale” (mi si permetta la parola), nel senso che non ha dato nessuna indicazione di voto. È giusto così, la missione del sindacato è per il lavoro e si deve concretare indipendentemente dal colore politico di chi governa. Ecco che, quindi, sono in molti gli iscritti della Cgil ad aver votato la Lega o il M5S, e non più solo il Pd… ricordiamo che fino alla gestione Bersani, la Cgil era considerata la cinghia di trasmissione del Partito democratico. È evidente che con la leadership di Renzi questo rapporto si è spezzato, ed è auspicabile che non sia qualcun altro a ripristinarlo.

Ora: in un Paese profondamente mutato dal punto di vista del sentimento politico, dove un elettore su due ha premiato Di Maio e Salvini e i loro movimenti, come può cambiare il sindacato? Il governo che uscirà da questa situazione parlamentare non potrà non adottare politiche più espansive dal punto di vista economico, più capaci ovvero di sostenere in particolare le famiglie e le Pmi. Per quanto buone misure, quelle sposate dalla recente legislatura si sono rivelate utili all’industria e alla grande impresa (si legga detassazione strutturale salario di produttività e incentivi per l’innovazione del piano Calenda). Non solo per colpa del decisore politico, ma anche perché la Pmi è refrattaria al cambiamento. Purtroppo è così, bisogna farsene una ragione…

In questo quadro, tornando al sindacato, torna centrale la questione del salario. Il basso livello dei salari italiani è un problema troppo grande per essere lasciato alla contrattazione di secondo livello, considerando anche la refrattarietà di cui sopra… Cioè: se cresce ricchezza ce la dividiamo, bene. E se non cresce? Lasciamo i lavoratori e le loro famiglie in crisi perenne? Per questo, qualcosa bisognerà pur fare. In quest’ottica il sindacato confederale può ritrovare una funzione importante. Chi lo ha capito bene è Maurizio Landini…

Twitter: @sabella_thinkin