Circa un secolo fa l’Italia contaminò l’Europa con il virus del fascismo. Oggi il nostro è diventato l’unico grande Paese, tra quelli fondatori dell’Ue, in cui i partiti e i movimenti populisti hanno trionfato nelle elezioni. Ci stiamo pericolosamente avvicinando a taluni Paesi dell’Est-Europa (non a caso Giorgia Meloni ha fatto visita all’ungherese Orban), i quali hanno perduto la memoria di che cosa ha significato per loro essere annessi nell’Unione dopo il crollo del Muro di Berlino. Ovviamente l’esito delle elezioni del 4 marzo (anche se era previsto ma non in quelle dimensioni) ha suscitato molta preoccupazione nelle Cancellerie, a Bruxelles e sui mercati. A parte qualche scossone a Piazza Affari, le altre Borse europee non hanno ancora accusato il colpo. Se il primo tempo – le elezioni – ha mandato dei segnali inquietanti, resta ancora da vedere il secondo tempo (la formazione di una maggioranza e di un governo), compresa la fine dell’intera vicenda.
Intanto da Moody’s – una delle tre sorelle del rating – è arrivato un caveat molto esplicito: giù le mani dalle riforme, da quelle del lavoro e delle pensioni in particolare. Gli analisti hanno avvertito – come scrivono i commenti delle agenzie – che eventuali passi indietro sulle riforme già attuate sarebbero negativi per il merito di credito dell’Italia. Ad esempio, ha ribadito l’agenzia, la Legge Fornero del 2011 ha contribuito a migliorare la sostenibilità di lungo termine del sistema pensionistico del Paese. Un passo indietro su questo fronte, come promesso in campagna elettorale da M5S e Lega, rappresenterebbe un rischio per il rating visto che l’Italia spende già quasi il 16% del Pil per le pensioni, una delle percentuali più alte nell’Unione europea.
Moody’s ha riconosciuto che il Governo uscente ha attuato o avviato riforme in diversi settori, compreso il mercato del lavoro, il settore bancario e il sistema fiscale, ma avverte che l’andamento della crescita e la competitività internazionale dell’Italia sono chiaramente in ritardo rispetto agli altri Paesi dell’area euro. In sostanza da Moody’s è venuto l’avviso di un declassamento dell’affidabilità del nostro Paese se le proposte contenute nei programmi di Lega e M5S divenissero iniziative del prossimo governo. Ed è presumibile che anche le altre agenzie farebbero lo stesso.
Certo i rating internazionali non sono scritti sulle Tavole della Legge, ma contano – e parecchio – ugualmente, in quanto condizionano i tassi di interesse sul debito e quelli sulle nuove emissioni o rinnovi dei titoli (anche perché il sostegno della Bce non sarà eterno). Soprattutto perché le nuove regole del pensionamento contenute nei due programmi sono molto simili e puntano a fare del trattamento di anzianità (quota 100 o 41 anni di contribuzione) la colonna portante del sistema pensionistico, dimenticando che proprio il superamento di tale istituto era richiesto dalla lettera della Bce del 5 agosto 2011.
Lungi da noi la volontà di fare processi alle intenzioni e di mettere a confronto un rapporto serio come quello presentato (col n. 5) da Itinerari previdenziali con i programmi abborracciati di due forze politiche. Ma le proposte contenute nelle conclusioni di quel documento potrebbero fornire un’indicazione su come manomettere la riforma Fornero delle pensioni. “Sono quindi preferibili – è detto nel Rapporto – politiche che tendano a premiare il ‘lavoro’, la ‘fedeltà contributiva’ e le lunghe carriere per cui l’indicizzazione dell’età di pensionamento alla aspettativa di vita resta un requisito irrinunciabile per gli equilibri del sistema (soprattutto per le pensioni di vecchiaia con carriere brevi e per quelle assistenziali), ma occorre altresì reintrodurre elementi di flessibilità in uscita ripristinando le caratteristiche della legge n.335/1995”.
A tal fine – è questo il cuore della proposta a cui si aggiunge un ripristino strutturale (e assai oneroso) del pensionamento flessibile in un range definito – si dovrebbe in prima battuta sganciare l’anzianità contributiva dall’aspettativa di vita (una caratteristica solo italiana introdotta con la riforma Fornero) prevedendo un minimo di 41 anni e mezzo di contribuzione con un massimo di 3 anni di contributi figurativi e un’età minima di 63 anni d’età. “È scarsamente equo (e, si potrebbe dibattere, forse anche poco costituzionale) – sostiene ancora il Rapporto – immaginare che un lavoratore possa accedere alla pensione con solo 20 anni di contributi e 67 anni di età (magari facendosi integrare la prestazione per via della modesta pensione a calcolo) e che un altro con oltre il doppio dei contributi e senza rischi di integrazioni a carico dell’erario, debba lavorare per oltre 43 anni (nel 2019)”. La ragione di tale differenziazione contenuta nel rapporto mi sfugge: in sostanza, i settori più deboli del mercato del lavoro e in particolare le donne (i soggetti che sono costretti ad avvalersi del trattamento di vecchiaia per la loro collocazione nel mercato del lavoro che non consente lunghe e stabili carriere lavorative) sarebbero sottoposti all’incremento automatico dell’età pensionabile rispetto all’andamento dell’attesa di vita, mentre coloro che hanno le condizioni per la quiescenza anticipata godrebbero di regole e requisiti fissati stabilmente.
Rimango, invece, convinto (un’opinione condivisa da gran parte della letteratura previdenziale) che sia stato proprio il settore dell’anzianità – in sinergia con i dati demografici ed occupazionali – a mettere in ginocchio il sistema pensionistico italiano. E che questa tipologia, crescente e inarrestabile (per l’anzianità si spende il doppio che per la vecchiaia), rappresenti il vero “privilegio” dei babyboomers e dello sviluppo industriale nei confronti di quelle future (che peraltro quota 100 o 41 anni di contribuzione faranno molta fatica a raggiungerli).