Nel febbraio scorso la Cassazione sembra avere definitivamente chiuso la vicenda, nota come caso Abercrombie, che ha interessato la disciplina nazionale del lavoro intermittente. La questione riguardava l’ipotetico contrasto col divieto comunitario di discriminazione per età, stabilito dalla direttiva 2000/78, della disposizione – vigente al momento dell’assunzione del ricorrente – che legittimava la stipulazione di contratti di lavoro a chiamata “in ogni caso”, cioè a prescindere da qualsiasi altra condizione oggettiva o soggettiva, con lavoratori con meno di venticinque anni di età; invece al momento della cessazione del rapporto, determinata dal licenziamento intimato per raggiungimento del limite di età, tale limite era già stato ridotto a ventiquattro anni, fermo restando che le prestazioni potevano continuare fino al venticinquesimo anno.
Mentre la Corte d’appello di Milano aveva rilevato il contrasto della disciplina nazionale, conseguentemente disapplicata, col ricordato principio di non discriminazione, la Cassazione più cautamente rimetteva il problema alla Corte di giustizia, lasciando comunque intendere la sua adesione alla pronuncia di merito. Nonostante le molte aspettative, fondate su numerosi precedenti dello stesso giudice comunitario, quest’ultimo ha tuttavia escluso il contrasto, rilevando, sulla scorta di un accertamento compiuto direttamente in quella sede, che la discriminazione per età, pur sussistendo, è comunque giustificata sia da legittime finalità occupazionali perseguite dal legislatore italiano, sia dall’utilizzo di mezzi giudicati appropriati e necessari.
Con la sentenza n. 4223 del 21 febbraio 2018 la Suprema Corte ha quindi preso atto, quale giudice del rinvio, della statuizione del giudice di Lussemburgo avallandone integralmente la ricostruzione, con l’ulteriore precisazione per cui l’innovativa scelta di esaminare direttamente la materia, senza demandare la valutazione al giudice interno, è pienamente legittima in forza del sistema di competenze integrate che impone, anche rispetto alle politiche sociali, di attribuire rilievo prioritario al complessivo contesto europeo. A prescindere da quest’ultimo rilievo, che attiene a un aspetto tecnico della tutela giurisdizionale multilivello non circoscritto al caso di specie, le critiche mosse alla sentenza della Corte di giustizia, tacciata di una valutazione sommaria e inadeguata del sistema normativo nazionale, non sembrano del tutto condivisibili. Invero, il diffuso richiamo all’interpretazione finora restrittiva offerta dalla giurisprudenza comunitaria per le deroghe consentite al divieto di discriminazione per età, deve qui misurarsi col problema della flessibilità tipologica.
A differenza di altri ambiti di disciplina caratterizzati da potenziali effetti discriminatori, le forme di lavoro flessibile sono, infatti, per definizione e in senso lato discriminatorie rispetto all’occupazione stabile, sicché ogni ragionamento sulla giustificazione di un limite di età, piuttosto che interessare la sola deroga al divieto di discriminazione, resta inevitabilmente assorbito dalla più ampia tematica della giustificazione della stessa tipologia flessibile di lavoro. Oltretutto, nel caso del lavoro intermittente neppure esiste una specifica disciplina sovranazionale che consenta di integrare le previsioni della direttiva 2000/78, come invece era per la normativa tedesca sul lavoro a termine oggetto della nota sentenza Mangold che, non a caso, avrebbe dovuto rappresentare il principale riferimento giurisprudenziale per chi sosteneva l’illegittimità della normativa nazionale sul lavoro a chiamata.
Più di un dubbio resta, invece, per la distinta questione della cessazione del lavoro intermittente al raggiungimento del limite di età. Sul punto la sentenza della Cassazione non è cristallina, limitandosi a rilevare che la Corte di giustizia – che peraltro parla indistintamente di licenziamento e di cessazione automatica del rapporto – ha escluso il contrasto con l’ordinamento comunitario anche per tale aspetto, invece ignorato dall’ordinanza di rinvio. In realtà, il problema sembra trascendere il diritto anti-discriminatorio e la stessa prospettiva sovranazionale, occorrendo chiarire, alla luce del sistema costituzionale, se l’ordinamento interno imponga l’adozione di un atto di recesso e, soltanto in questo secondo caso, se sia ammissibile, alla stregua di giustificazioni di carattere occupazionale rispetto alla specifica tipologia flessibile, un licenziamento motivato unicamente da una condizione soggettiva del lavoratore.