In questi giorni è proseguito il confronto mediatico sul tema dei “lavoratori delle piattaforme”. Occorre però precisare che i “platform workers” sono una categoria molto variegata di persone che utilizzano le piattaforme digitali per trovare lavoro. Una prima macro distinzione, solo per dare evidenza della complessità del tema, può essere rappresentata dai crowdworking ovvero lavoratori, spesso freelance a media alta professionalità, che utilizzano la piattaforma come pura intermediazione per agevolare l’incontro con la domanda di lavoro. Abbiamo poi i “riders”, i fattorini di Foodora per intenderci. In questo caso la piattaforma non svolge il ruolo di semplice intermediario, ma è il datore di lavoro vero e proprio, al punto da dettare le condizioni contrattuali ed economiche.



Precisato quindi che non tutta la gig economy è uguale, rinviando ad altra letteratura gli approfondimenti di teoria, per la regolamentazione di questi “nuovi lavoretti” (e solo per questi, perché sono convinto che i freelance abbiano altre esigenze), c’è uno strumento che potrebbe essere migliore dell’intervento del legislatore, che è la contrattazione.



Innanzitutto già l’atto in sé della contrattazione è l’esplicitarsi di una dignità. Perché per poter contrattare serve il reciproco riconoscimento, stimare la propria controparte in quanto portatore di interessi, bisogni ed esigenze diverse, con la convinzione che la possibile sintesi, da raggiungere tramite il negoziato, rappresenta una soluzione alta, più prossima al bene generale. Diversamente, l’inizio della precarietà è proprio quando non esiste contrattazione e le condizioni del rapporto di lavoro vengono definite unilateralmente.

I riders non sono stati inclusi nel lavoro dipendente, ma inquadrati nel mondo della parasubordinazione, in particolare nella tipologia delle collaborazioni coordinate e continuative. L’azione contrattuale di questi anni della Felsa-Cisl è intervenuta non solo nel lavoro in somministrazione (tornerò dopo sul tema), ma anche nel mondo atipico. Attraverso la contrattazione, in alcuni casi, abbiamo superato anche le disposizioni legislative, costruendo un importante impianto di tutele per i collaboratori. Parlo appunto di impianto, perché la contrattazione non riguarda solo la retribuzione, che deve avere dei riferimenti minimi negoziati e un corretto inquadramento professionale, ma anche la garanzia dei diritti sindacali e la libertà associativa, la tutela alla maternità, malattia, riposo psicofisico (ferie), tutela sanitaria integrativa, sostegno alla continuità occupazionale, ecc.



Non solo la contrattazione genera tutele, ma in una logica sussidiaria, propria dei corpi intermedi quali sono i soggetti di rappresentanza, le soluzioni individuate hanno un grado di pertinenza con le reali necessità e interessi dei lavoratori e dei datori di lavoro molto più apprezzabile dell’intervento legislativo. La contrattazione comporta però un enorme sacrificio. La grande fatica è quella di stare nella realtà, non solo governare i processi, ma favorire la partecipazione dal basso, il coinvolgimento delle persone, costruire giorno dopo giorno proposte, favorire i comportamenti migliori, individuare le distorsioni e contrastare gli abusi.

Consapevoli che un percorso del genere è impegnativo ma possibile, perché anche 20 anni fa nella somministrazione nessuno poteva immaginare che attraverso la contrattazione si sarebbe generata una forma contrattuale flessibile e tutelata, così anche per la gig economy siamo disponibili a cogliere questa nuova e importante sfida. Nella somministrazione la responsabilità delle parti sociali ha trovato negli anni soluzioni alte. Questo è stato possibile perché la contrattazione è sempre stata svolta da soggetti di rappresentanza, che hanno perfettamente contezza della realtà, nelle sue esperienze migliori ma anche nelle sue storture. Provare a correggere e migliorare il sistema è una responsabilità, per fortuna affidata alle parti sociali che vivono il territorio, vivono il lavoro e il contatto con le persone.

Evitare che un lavoratore abbia 200 contratti giornalieri in un anno non vuol dire snaturare la somministrazione, ma contrastare una patologia che non fa bene a nessuno; evitare che una lavoratrice abbia contratti temporanei nella Pubblica amministrazione per più di 10 anni è un segno di civiltà, così come l’assunzione di una responsabilità più cogente alla ricollocazione (con risorse bilaterali del sistema) non è irrigidire il mercato, ma forse è sostenere fino in fondo il protagonismo delle Agenzie per il lavoro nel fare quello che è nella loro più compiuta natura: trovare lavoro.

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