“È possibile intervenire ulteriormente nel sistema pensionistico, rendendo più rigorosi i criteri di idoneità per le pensioni di anzianità e riportando l’età del ritiro delle donne nel settore privato rapidamente in linea con quella stabilita per il settore pubblico, così ottenendo dei risparmi già nel 2012”. Che bei tempi erano quelli, quando la Bce – il 5 agosto del 2011 – dettava al Governo italiano indicazioni chiare e perentorie in materie cruciali per le finanze pubbliche, incluse le pensioni. L’esecutivo presieduto da Silvio Berlusconi, sotto lo scacco di un avviso di infrazione, aveva già provveduto ad allineare a marce forzate l’età pensionabile di vecchiaia delle dipendenti della Pubblica amministrazione a quella dei loro colleghi maschi e aveva avviato una percorso di graduale innalzamento (la cui andata a regime era prevista nel 2024) del requisito anagrafico delle donne nell’impiego privato. Poi si era inventato una cosiddetta finestra mobile che spostava in avanti di 12 mesi (18 per gli autonomi) – dalla maturazione del diritto – il godimento della pensione. Ma sulla questione dell’anzianità i tentativi erano tutti falliti per l’opposizione della Lega, schierata a difesa delle pensioni “padane”.



Il Governo dei tecnici non aveva esitato a realizzare a tambur battente una nuova riforma, nella quale i trattamenti di anzianità avevano cambiato nome (assumendo quello di pensioni di vecchiaia anticipate), ma la sostanza restava pressappoco quella di prima, salvo una modesta penalizzazione economica per coloro che avessero maturato e usufruito del diritto alla prestazione, secondo in requisiti contributivi previsti ma prima dei 62 anni di età. Questo palliativo venne dapprima sospeso, poi abolito. E l’utilizzo del trattamento di anzianità, soprattutto nel lavoro dipendente e grazie pure a ben otto salvaguardie per i cosiddetti esodati, è stato largamente prevalente nei flussi, fino a superare le prestazioni di vecchiaia persino nello stock. Considerando tutti i settori pubblici e privati, le pensioni anticipate sono in numero superiore dei trattamenti di vecchiaia e comportano un onere almeno triplo (tabella 1).



Tabella 1. Pensioni liquidate di anzianità e vecchiaia

E la storia è continuata allo stesso modo. Secondo i dati recentemente resi noti dall’Inps limitatamente ai settori privati, dipendenti e autonomi, il 77% dei nuovi pensionati ha meno di 65 anni e il 30% non arriva a 60 anni. Nel 2017 vi è stato un incremento di spesa per pensioni di 4,7 miliardi di cui il 55% è andato a trattamenti anticipati e un miliardo a soggetti con meno di 60 anni. Lo stock delle pensioni di anzianità è pari a 4,3 milioni (per una spesa complessiva di 94 miliardi, il 52% del totale) contro 4,7 milioni di vecchiaia (con un onere di 42 miliardi, pari 34% del totale che include ovviamente anche l’invalidità e i superstiti).



Ma l’istituto dell’anzianità è destinato a ulteriori glorie: a divenire – dopo le elezioni del 4 marzo – il perno del sistema pensionistico affrancato dai (presunti) vincoli imposti da Elsa Fornero. I due partiti vincitori si riconoscono nella medesima proposta: basterà raggiungere quota 100 (sommando età e anzianità) o aver maturato 41 anni di contribuzione e sarà fatta. Nel dibattito emergono soluzioni più precise. Si dice, per esempio, che per arrivare a 100 occorrerà sommare 64 (l’età) e 36 (l’anzianità contributiva). Sarà opportuno – se questa sarà la scelta – avvalersi dell’impianto a suo tempo varato dal ministro Cesare Damiano (l’inventore delle quote) nel 2007, consentendo criteri più flessibili (ad esempio 63+37). Soprattutto ci si accorgerà che tra i due criteri alternativi finirà per prevalere il secondo (i 41 anni di anzianità) perché le coorti che si apprestano ad andare in pensione nei prossimi anni saranno in grado di maturare tale requisito contributivo prima di aver compiuto 63 o 64 anni di età.

Ci sono poi altri aspetti che dovranno essere affrontati. Quali saranno le regole per il trattamento di vecchiaia? Che cosa avverrà dell’aggancio automatico all’attesa di vita? Quale sarà la sorte del “pacchetto Ape e Rita” che ha aperto delle uscite di sicurezza nel sistema senza demolire del tutto la struttura della riforma del 2011? Intanto verranno presi di mira i vitalizi degli ex parlamentari, attraverso il principio dell’autodichia (ovvero dell’autonomia normativa riconosciuta agli organi costituzionali). L’esperienza fallimentare del disegno di legge Richetti ha fatto scuola: intervenire in questa materia in maniera discriminatoria per legge avrebbe determinato la sanzione della Consulta. I giudici delle leggi, invece, gireranno alla larga da una misura assunta in regime di autodichia. Il processo logico-giuridico deve prima risolvere una questione preliminare: se l’autodichia ha dei limiti nei confronti dei diritti fondamentali dei cittadini (anche gli ex parlamentari lo sono). Una volta risolto questo problema si potrà valutare se l’eventuale delibera “abolizionista” dell’Ufficio di Presidenza ha violato o meno questi diritti fondamentali.

Prima che un siffatto delicato procedimento arrivi a dei punti fermi, coloro che considerano lesi i propri diritti potranno fare ricorso agli organi giurisdizionali interni alle Camere. Ma sarà cura dei vincitori fare in modo che la composizione di tali organi assicuri un orientamento uniforme a quanto deciso in sede politica.