Le recenti stime sulla crescita del Pil, in occasione della presentazione del Def, sono incoraggianti circa l’andamento dell’economia del nostro Paese: +1,5% quella prudenziale, +2% quella potenziale. È chiaro che, comunque vada, il 2018 pare un anno buono, confermato anche dalle recenti rilevazioni del ministero del Lavoro sulla produttività (+0,9% 2017). Non male per un sistema economico la cui produttività negli ultimi 15 anni è cresciuta mediamente del +0,3%.



La sensibile crescita della produttività del lavoro è anche figlia delle misure adottate nel corso di questa legislatura: incentivi per l’innovazione di impresa – piano industria4.0 – e detassazione salario di produttività. Nell’uno e nell’altro caso, tali strumenti hanno favorito – in particolare laddove c’è rappresentanza sindacale – la partecipazione al lavoro, vera leva per la crescita della produttività.



Resta tuttavia il problema di quella grossa fetta di aziende (stimata attorno al 60%) lontane da accettabili livelli di competitività. Non tutte sono aziende in difficoltà, molte di queste sono imprese che – pur essendo sopravissute negli anni più duri – faticano oggi a investire e a tornare aggressive sul mercato. È, prevalentemente, la nostra Pmi, che non possiamo lasciar morire e che ha bisogno di strumenti diversi da quelli che sostengono la grande impresa, per cui vanno molto bene le misure menzionate precedentemente.

Come fare quindi a dare manforte alla Pmi? La Pmi è ciò che costituisce il sistema produttivo dell’economia spagnola, perché la Spagna si è abituata a crescere del +3% e noi – Paese a economia più avanzata – siamo su livelli inferiori? Dopo essere stata sull’orlo del default, nel 2011 la Spagna – con oltre 41 miliardi di aiuti europei – ha rilanciato i finanziamenti alle imprese; nel 2012 ha fatto una buona riforma del lavoro che ha di fatto dato inizio a un trend significativo dell’occupazione; e nel 2014 ha varato un intervento fiscale determinante per i risultati di cui parliamo, tagliando i costi sul reddito da lavoro.



Posto che anche noi abbiamo fatto un intervento (Jobs Act, 2015) che ha rimesso in moto il mercato del lavoro – cosa che non era avvenuta con la riforma Fornero del 2012 – ciò che è mancato in questi anni è stato proprio un intervento strutturale sul fisco, unica misura che può segnare un cambio di passo e far ripartire qualche investimento. Bisogna permettere alle imprese di ritrovare liquidità. Per questo, è importante ridurre i livelli di tassazione, anche nell’ottica di ridistribuire ricchezza: è chiaro che tagliare il cuneo fiscale può aiutare sia l’impresa che il lavoro.

Come ha fatto la Spagna nel 2014, il costo della riforma fiscale per le casse dello Stato è stato ripagato in due anni dall’aumento di consumi e livelli occupazionali. L’Europa, come già successo nel caso spagnolo, permette di sforare il tetto del 3% del deficit; chiede, però, di impegnarsi con riforme strutturali e, soprattutto, controllo della spesa.

Siamo all’inizio di una nuova legislatura: la riforma del fisco è la vera riforma che questo Paese attende.

Twitter: @sabella_thinkin