Con sentenza n. 10435 del 2 maggio 2018, la sezione lavoro della Corte di Cassazione ha preso posizione su un punto controverso dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, come modificato dalla riforma Fornero (l. n. 92/2012). Il caso all’esame della Corte concerne una lavoratrice licenziata per motivi economici (meglio, per giustificato motivo oggettivo). Per la disciplina italiana, risalente al 1966, il licenziamento economico è legittimo se il datore di lavoro prova l’esistenza di una ragione produttiva od organizzativa e il nesso tra detta ragione e la soppressione delle mansioni svolte dal lavoratore. Nella fattispecie, il datore ha provato che, a causa dei bilanci negativi degli ultimi esercizi, aveva effettivamente esternalizzato funzioni e compiti prima eseguiti all’interno della società, tra cui quelli ai quali la lavoratrice era adibita, con conseguente espunzione della posizione ricoperta dalla stessa.



Ma ciò non è sufficiente per la legittimità del licenziamento. La giurisprudenza, per vero con un’interpretazione creativa della legge, ritiene che il datore non possa validamente licenziare il lavoratore per ragioni economiche se prima non abbia verificato la possibilità di adibirlo ad altre mansioni eventualmente disponibili e compatibili con la sua professionalità: si tratta del cosiddetto obbligo di repêchage (o di ripescaggio). L’onere della prova dell’impossibilità di ricollocare il prestatore in altra posizione aziendale è pure a carico del datore di lavoro. Egli potrà soddisfare tale onere dimostrando, ad esempio, di non aver effettuato nuove assunzioni nel periodo del licenziamento, o di averne effettuate per qualifiche incompatibili con la professionalità posseduta dal lavoratore licenziato. Nel caso deciso dalla Corte, il datore non aveva adeguatamente dimostrato, in particolare, a quali mansioni si riferissero le assunzioni effettuate nei mesi successivi al licenziamento della lavoratrice.



In base all’art. 18 dello Statuto, prima della riforma Fornero, l’illegittimità del licenziamento dava sempre luogo alla reintegrazione del lavoratore e al ristoro di tutte le retribuzioni mancate, dalla data di espulsione sino a quella del ripristino del rapporto. La l. n. 92/2012, volendo ridurre i costi del licenziamento illegittimo, specialmente di quello per giustificato motivo oggettivo, ha invece distinto tra ipotesi ancora meritevoli della tutela reintegratoria (accompagnata però da un risarcimento, nel massimo, di 12 mensilità di retribuzione); e ipotesi sanzionabili con un mero indennizzo onnicomprensivo, tra un minimo di 12 e un massimo di 24 mensilità di retribuzione, fissato dal giudice sulla base di alcuni parametri individuati dalla legge. Più precisamente, la reintegrazione può essere disposta in caso di “manifesta insussistenza del fatto” posto a base del licenziamento economico; l’indennizzo, invece, è comminato quando “non ricorrono gli estremi” del giustificato motivo oggettivo.



La prevalente giurisprudenza di merito ha ritenuto eccezionale la possibilità della reintegrazione: essa andrebbe irrogata solo in caso di totale difetto della ragione produttiva od organizzativa – la cui esistenza, come detto, va dimostrata dal datore di lavoro – o di mancata soppressione delle mansioni. Infatti, la norma richiede a tal fine che non sussista il “fatto posto a base” del licenziamento. Ha invece ricondotto alla tutela indennitaria, sulla base della lettera della disposizione, la mancanza degli altri “estremi” del motivo oggettivo, tra cui la verifica della possibilità del ripescaggio. In effetti, pensando al caso deciso dalla pronuncia in commento, altro è il fatto riorganizzativo dell’esternalizzazione di alcuni servizi (che il datore ha dimostrato); altro, e distinto, è il profilo della ricerca di diverse mansioni cui adibire il lavoratore.

Simile orientamento è coerente con la ratio della legge, che ha inteso limitare la sanzione reintegratoria ai casi più gravi, e con la lettera della stessa, che individua presupposti diversi rispettivamente per la reintegrazione e per l’indennizzo. Inoltre, sortisce apprezzabilmente l’effetto di relativizzare un obbligo (il ripescaggio) che è frutto di una creazione giurisprudenziale, non trova fondamento legale ed è stato dilatato sino a ricomprendere la verifica della disponibilità di mansioni anche inferiori rispetto a quelle prima svolte dal lavoratore e poi soppresse.

La Corte di Cassazione, tuttavia, ha solo parzialmente confermato questo orientamento. Essa infatti ha sancito che anche il mancato ripescaggio può dar luogo alla reintegrazione. Da una parte, la sentenza ritiene che il “fatto” posto a base del licenziamento economico includa anche l’obbligo di ripescaggio (dunque, il “fatto” comprenderebbe sia la ragione produttiva od organizzativa, sia il repêchage); dall’altra, sempre secondo la pronuncia, ciò che conta è in definitiva la “manifesta insussistenza”, o meno, di questo fatto alla luce dello svolgimento del processo. In sintesi, secondo la Corte il datore subirà la sanzione della reintegrazione ogni qual volta la prova, a suo carico, della legittimità del recesso sia radicalmente insufficiente. Qualora non vi sia tale evidenza, invece, sarà condannato all’indennizzo. Per vero, la Corte specifica anche – qui più condivisibilmente – che la reintegrazione non sia mai scontata, anche in caso di manifesta insussistenza del fatto: la norma infatti prevede che il giudice “può” (ma non deve) disporla, valutando se le circostanze di fatto consentano un utile reinserimento del lavoratore. Cosa che non sarebbe possibile se, ad esempio, nel frattempo, le condizioni economiche aziendali si siano significativamente deteriorate.

Due sono i profili criticabili della sentenza: in primo luogo, essa adotta come discrimine tra reintegrazione e indennizzo un elemento incerto, cioè l'”evidenza” o meno della prova in giudizio, che si presterà sempre o perlopiù a interpretazioni contrapposte; in secondo luogo, ribaltando l’orientamento prevalente tra i giudici di merito, torna a dare vigore, con la possibilità della reintegrazione, a un obbligo (il ripescaggio) che è frutto di una invenzione della giurisprudenza e non ha radicamento normativo. Obbligo che, peraltro, è distonico rispetto all’evoluzione dell’ordinamento, che da un lato affida, non al datore, ma ad altri soggetti e strumenti la presa in carico e la ricollocazione del lavoratore licenziato; dall’altro, con il Jobs Act (d.lgs. n. 23/2015), ha eliminato per i nuovi assunti la possibilità della reintegrazione per ogni fattispecie di licenziamento economico ingiustificato.