Abbiamo, quindi, il “famoso” contratto di programma “alla tedesca” per il cambiamento. Ci sono, insomma, le basi per far partire il primo governo giallo-verde della nostra storia repubblicana. Tra i vari punti programmatici merita, certamente, un’attenzione particolare il reddito di cittadinanza proposto/promesso dai 5 stelle durante la recente campagna elettorale.



Nella versione condivisa con la Lega (ex Nord) questo strumento viene definito come una misura attiva rivolta ai cittadini italiani al fine di reinserirli, se esclusi dal mercato del lavoro, nella vita sociale e lavorativa del Paese nella prospettiva di garantire la dignità della persona in difficoltà e di rappresentare un volano per esprimere tutte le potenzialità produttive del nostro Paese, favorendone così la crescita sia dal punto di vista occupazionale che economico.



La misura si configura, nello specifico, come uno strumento di sostegno al reddito per i cittadini che versano in condizione di bisogno. L’ammontare, stabilito in base alla soglia di rischio di povertà, sarà fissato in 780 euro mensili per una persona sola e riparametrato per nuclei familiari più numerosi. Si prevede, quindi, uno stanziamento economico di 17 miliardi all’anno. Al fine di consentire il reinserimento del cittadino nel mondo del lavoro, l’erogazione del reddito di cittadinanza presuppone, ovviamente e come già prevede la normativa vigente, un impegno attivo del beneficiario che dovrà aderire alle offerte di lavoro provenienti dai Centri dell’impiego. È da auspicare, in tal senso, un maggiore coinvolgimento dei soggetti accreditati privati come vale, ad esempio, per l’assegno di ricollocazione.



Il lavoratore decadrà dal beneficio in caso di rifiuto di accettazione delle proposte di lavoro avanzate dai servizi per il lavoro (si parla di massimo tre in due anni). Non sembra, tuttavia, che si corra questo rischio visto il numero esiguo di opportunità di lavoro che, ancora oggi, passano da questi servizi. Ciò presuppone, secondo i firmatari del contratto, un investimento di 2 miliardi di euro per la riorganizzazione e il potenziamento dei Centri per l’impiego chiamati a svolgere un nuovo centrale ruolo nelle politiche del lavoro immaginate dal governo (forse) in via di definizione. A tal fine potrebbero svolgere un ruolo importante le risorse del, molto spesso bistrattato, Fondo sociale europeo.

La sfida è, certamente, ambiziosa. Tutto questo non sarà però possibile, e sostenibile, se accanto alle misure di sostegno non si affiancheranno, come lo stesso documento sottolinea, serie, e credibili, politiche di sviluppo industriale per il nostro Paese a partire da strategie chiare per la gestione di, in molti casi, complessi processi di riconversione puntando con coraggio su innovazione e qualità del lavoro. L’idea di creare, in questo quadro, un mega dicastero per lo sviluppo economico e il lavoro potrebbe, quindi, andare nella giusta direzione. La scelta, tuttavia, così come le politiche messe in campo, non dovrà essere giudicata “a prescindere”, ma dalla reale capacità della nuova classe dirigente di rispondere con efficacia alle richieste dei cittadini.