Al di là di quanto siano poco moderni i metodi di rilevazione dei livelli occupazionali – tema importante che tuttavia rimandiamo ad altra sede – va detto che Istat, che ogni mese ci offre un’istantanea sull’andamento del nostro mercato del lavoro, applica standard europei che sono gli stessi con cui si cimentano anche gli altri paesi. In attesa di poter usufruire di metodologie più adeguate al nostro tempo, le rilevazioni dell’Istituto nazionale di statistica ci sono utili quantomeno per capire un andamento.
Da questo punto di vista, i dati diffusi ieri sono interessanti. Vediamo alcuni elementi: il tasso di disoccupazione rimane stabile all’11,0%, continuando a viaggiare sui livelli più bassi da settembre del 2012, ma sopra di 5 punti percentuali rispetto ai valori pre-crisi; la disoccupazione giovanile scende al 31,7% (secondo Istat si tratta del tasso più basso da dicembre 2011); il tasso di occupazione, salito di 0,2 punti al 58,3%, tocca il livello più alto da ottobre del 2008.
Come scrivevamo in un recente articolo su queste pagine, le recenti stime sulla crescita del Pil – in occasione della presentazione del Def – sono incoraggianti circa l’andamento dell’economia del nostro Paese: +1,5% quella prudenziale, +2% quella potenziale. È chiaro che, comunque vada, il 2018 pare un anno buono, confermato anche dalle recenti rilevazioni del ministero del Lavoro sulla produttività (+0,9% 2017).
Siamo quindi autorizzati a guardare con cauto ottimismo alla situazione della nostra economia, auspicando che possano crescere gli investimenti e i livelli retributivi: solo la crescita dei salari può infatti incidere significativamente sulla domanda interna e, quindi, sul Pil. Resta, tuttavia, quella italiana una situazione piena di contraddizioni: tutti i mesi parliamo di occupati e disoccupati, ma solo una volta all’anno qualcuno si ricorda che in Italia quasi 4 milioni di persone lavorano in nero (oltre 2,5 milioni sono riconducibili al lavoro dipendente). Sarebbe interessante calcolare l’incidenza effettiva del lavoro sommerso in Italia sui livelli occupazionali: è chiaro che, per quanto anomalo il fenomeno, non può essere considerato assenza di lavoro.
Altra contraddizione che faremmo bene a considerare con la massima attenzione – sia a livello di informazione, sia di quello degli stakeholder del lavoro – è quella delle posizioni vacanti. Proprio in questi giorni, la Confindustria ha comunicato che per effetto del piano industria4.0 da qui a 5 anni si ricercano 280.000 nuovi innesti. L’identikit delle figure richieste: flessibilità, cultura digitale, attitudine al cambiamento. È chiaro che il profilo ideale è quello del nativo digitale con manodopera qualificata.
L’indagine svolta dalla Confindustria ha preso in esame cinque settori cardine per l’Italia, vale a dire la meccanica, l’agroalimentare, la chimica, la moda e l’Ict. Si tratta di una stima di fabbisogno occupazionale che tiene conto del saldo tra pensionamenti e diplomati dagli istituti tecnici e che se soddisfatto porterebbe il livello della disoccupazione al di sotto del 10%. Complici i forti incentivi fiscali del piano industria4.0, nell’ultimo anno le aziende hanno investito molto per rinnovare i loro impianti e adeguarsi alla trasformazione ma ora rischiano di non trovare le persone necessarie a farli funzionare.
Ecco, per la serie “il digitale distrugge il lavoro”…
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