Le recenti elezioni amministrative e il radicale cambio di orientamento politico di molti sindaci e amministratori locali già eletti o in corsa negli imminenti ballottaggi, riportano alla ribalta la vexata quaestio del cosiddetto spoil system, riguardante gli amministratori nominati dagli enti pubblici locali nelle società partecipate.



La realtà in questione è tutt’altro che marginale: secondo gli ultimi dati Istat disponibili, sarebbero circa 10mila le società partecipate totalmente o prevalentemente dallo Stato o dagli enti locali. Di esse il 23,5% risulta in perdita, il 25% non ha alcun dipendente e circa il 10% sarebbe inattiva. Da un’analisi svolta nel 2017 dal ministero dell’Economia e delle Finanze dopo la cosiddetta riforma Madia del 2015, circa 1.600 società partecipate non sarebbero neppure in regola e dovrebbero essere dismesse o chiuse in base alle nuove normative. Per ricordare gli esempi più noti, si pensi all’Atac e all’Ama di Roma, le cui gestioni sono state più volte sottoposte – non certo in termini lusinghieri – all’attenzione dei media, oppure in Lombardia al Teatro alla Scala, all’Atm di Milano o alla Sea (Società Esercizi Aeroportuali), oltre a centinaia di scuole civiche, aziende di rifiuti, centrali del latte, farmacie comunali che costituiscono il variopinto mondo delle cosiddette “ex municipalizzate”.



Al riguardo la legge (articolo 2449 del Codice civile, in linea con la legge 267/2000 riguardante gli enti locali e con numerose normative regionali) riconosce allo Stato o agli enti pubblici che hanno partecipazioni in società per azioni che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, la facoltà di nominare un numero di amministratori proporzionale alla partecipazione al capitale sociale e prevede altresì che i predetti amministratori possano essere revocati soltanto dagli enti che li hanno nominati. La legge specifica, inoltre, che gli amministratori nominati dall’ente pubblico hanno gli stessi diritti e obblighi dei membri nominati dall’assemblea dei soci.



L’interpretazione delle predette norme ha sollevato numerosi dubbi, soprattutto con riferimento alla possibilità – per l’appunto nota come spoil system – per l’ente pubblico di revocare gli amministratori per il solo mutamento del proprio “colore” politico e, dunque, senza la sussistenza di una giusta causa gestoria. In particolare, secondo un primo – e più risalente – indirizzo giurisprudenziale il diritto di nomina e revoca degli amministratori riconosciuto dalla legge all’ente pubblico comporterebbe necessariamente l’esistenza e la permanenza di un cosiddetto pactum fiduciae tra l’ente e l’amministratore, il quale è stato scelto sulla base della propria attitudine a rappresentare gli indirizzi di politica amministrativa e gestionale dell’ente. Secondo tale orientamento deve essere, quindi, considerata giusta causa “tipizzata” di revoca il mutamento della maggioranza politica dell’ente che ha nominato l’amministratore, in quanto circostanza idonea di per sé a minare l’affidamento posto sulle attitudini e capacità di quest’ultimo a realizzare le finalità perseguite dall’ente pubblico.

Sulla scorta di tale orientamento la Corte d’Appello di Milano, con sentenza del 5.5.2010, ha ritenuto legittimo l’azzeramento dei membri del Cda di Milano Serravalle–Milano Tangenziali Spa operato dal nuovo presidente della giunta provinciale di Milano (Penati) che si era avvicendata alla precedente giunta di centro-destra. In particolare, secondo i giudici milanesi, i membri del Consiglio di amministrazione in quanto promanazione dei sindaci e/o delle maggioranze degli enti pubblici territoriali hanno un mandato politico e come tale revocabile in caso di cambio di maggioranza della giunta o del consiglio di riferimento.

Di segno opposto, invece, un più recente orientamento giurisprudenziale “confortato” dall’autorevole intervento della Corte costituzionale del 2010. In particolare, con la sentenza n. 34 del 2010 la Corte ha sancito la necessità di distinguere tra nomine di amministratori con funzione politica o natura apicale (implicanti un necessario stretto raccordo tra gli indirizzi politici e il rappresentante nominato) e nomine con valenza tecnico-amministrativa, non fondate su una valutazione politica dell’amministratore nominando, ma su un giudizio oggettivo sulle sue qualità e capacità professionali (e dunque implicante un’apprezzabile autonomia dello stesso dagli indirizzi politici del momento). Ciò posto, secondo la Corte costituzionale la caducazione automatica degli amministratori con nomina di derivazione pubblica, per i funzionari “di matrice professionale”, risulta contraria ai princìpi di imparzialità e buona amministrazione.

Tali princìpi sono stati successivamente confermati anche da Corte costituzionale n. 20/2016, secondo cui cariche come quelle del direttore di Abruzzo Lavoro (ente oggi soppresso) non potevano essere esposte a spoil system, e da Corte costituzionale n. 269/2016.

Anche le più recenti sentenze della Corte di Cassazione hanno ritenuto inapplicabile il cosiddetto spoil system alla revoca di amministratori di enti i quali, pur nominati dal sindaco, non sono stati espressamente designati come rappresentanti del Comune, né sono risultati legati con l’amministrazione comunale in carica da un rapporto di esponenzialità politica (Cassazione Sezioni Unite n. 1237/2015).

La giurisprudenza ha infatti rilevato che affidare le funzioni gestorie e tecnico/amministrative di esecuzione dell’indirizzo politico di un ente a soggetti cui si richiede una specifica appartenenza politica lede il principio d’imparzialità amministrativa. Pertanto, un sistema di decadenza/revoca immediata dell’incarico sarebbe possibile in via residuale soltanto riguardo ad organi di vertice (apicali) nominati intuitu personae dall’organo politico, ma non anche rispetto a soggetti che non possiedono detti requisiti e che sono stati designati previa selezione avente ad oggetto le loro qualità professionali.

In questo solco si segnalano anche le due sentenze del Tribunale e della Corte d’Appello di Milano (rispettivamente del 10.2.2014 e del 5.4.2016) che hanno condannato il consiglio comunale – in solido con la società interessata – per avere revocato senza giusta causa il Cda di Milano Ristorazione Spa, così come era avvenuto per la maggior parte delle cosiddette ex municipalizzate poche settimane dopo l’insediamento della giunta Pisapia.

La Corte meneghina ha infatti osservato che una società di capitali avente ad oggetto un’attività commerciale con lo scopo di conseguire utili “non potrebbe tollerare un alto grado d’interferenza politica nell’attività di gestione, sì da annientare ogni presupposto di competenza e d’indipendenza gestionale degli amministratori rispetto a chi li ha nominati”.

In sintesi, secondo la Corte d’Appello, gli amministratori di società partecipate rispondono della loro gestione al mercato secondo le migliori logiche civilistiche e non hanno quindi un mandato cosiddetto politico.

Proprio tale vicenda approderà domani all’esame delle Sezioni Unite delle Cassazioni e, considerati i terremoti politici che stanno attraversando l’Italia, sarà certamente interessante conoscere il verdetto della Suprema Corte nella sua più autorevole funzione nomofilattica, atteso nelle prossime settimane.

L’auspicio è che, secondo i princìpi costituzionali di buona e trasparente gestione delle società, vengano sottratte alla logica della politica le nomine delle società di capitali partecipate; e che possano essere scelti amministratori capaci e competenti a operare con diligenza e trasparenza secondo logiche privatistiche senza subire repentine interruzioni nella gestione dei mandati che, oltretutto, di norma per le società hanno la durata di soli tre anni.

La situazione economica e finanziaria delle 10mila società ed enti in questione recentemente fotografata dall’Istat dovrebbe infatti indirizzare tutti – a partire dalle amministrazioni comunali fresche di nomina – a ricercare il bene comune prima che perseguire logiche di stretta appartenenza partitica.