Ormai è evidente: il nuovo governo è più attento alla propaganda che alla sostanza dei problemi. Ha cominciato Matteo Salvini impedendo alla nave Aquarius di attraccare in un porto italiano (proprio quando alcuni milioni di italiani erano chiamati al voto amministrativo).
Per non essere da meno nell’ambito delle sue competenze, Luigi Di Maio (il minore dei “fratelli De Rege”: gli studenti fuori corso che affiancano il professor Giuseppe Conte a Palazzo Chigi) sta predisponendo il cosiddetto “decreto dignità”, con un occhio particolare di riguardo al caso dei cosiddetti riders (le persone che in collegamento con una piattaforma digitale si recano in bicicletta o in motorino a consegnare il pasto a domicilio, dopo averne accettata l’ordinazione sul web). I riders sono l’ultima raffica dei media sfascisti (televisivi soprattutto) contro la precarietà.
Nei mesi scorsi questi lavoratori hanno effettuato anche iniziative di sciopero, allo scopo di ottenere più diritti e tutele dalle società multinazionali (come Foodora, ad esempio) che si avvalgono della loro attività. I prestatori d’opera sono retribuiti a cottimo (un tot a consegna) e dispongono delle tutele previdenziali riconosciute ai collaboratori. Recentemente il Tribunale di Torino, investito della questione del rapporto giuridico, ne ha affermato la natura di lavoro autonomo, in conseguenza dell’autonomia consentita al rider di organizzare il proprio lavoro, aderendo o meno alle richieste che gli vengono proposte.
Che il problema esista è vero, che sia necessario occuparsene è opportuno; ma è assai discutibile che si tratti di un’emergenza e di una priorità tale da intervenire per decreto legge, dal momento che la questione riguarda un settore marginale del mercato del lavoro, nel quale operano in prevalenza studenti o lavoratori che integrano il reddito derivante da altre occupazioni. Certo, per taluni quella del “fattorino del cibo” è anche la sola attività svolta: ma non sono queste figure a delineare il prototipo del rider.
In sostanza, nella grande maggioranza delle situazioni la flessibilità, l’autorganizzazione, le modalità di retribuzione corrispondono non solo agli interessi delle imprese, ma anche degli stessi lavoratori (lo dimostra il fatto che tale attività è caratterizzata da un accelerato turnover e da brevi periodi di impiego, magari tra un esame e l’altro oppure tra un impiego di carattere stagionale e un altro). Voler ricondurre questi rapporti nell’ambito del lavoro subordinato e dell’applicazione dei relativi istituti non è un modo di tutelare il lavoro, ma di distruggerlo.
Non a caso o per ritorsione le imprese del settore – pur dichiarandosi disponibili a migliorare i trattamenti e le regole di ingaggio – hanno minacciato di andarsene dall’Italia se il decreto Di Maio (il quale ha risposto piccato che lui non accetta ricatti) proseguisse il suo iter mantenendo davvero quei contenuti dirigistici previsti nel testo provvisorio.
Tanto per dare un’idea di quanto sta concependo il neoministro del Lavoro riportiamo il primo comma dell’articolo 1 del decreto in elaborazione: “È considerato prestatore di lavoro subordinato, ai sensi dell’art. 2094 del codice civile, chiunque si obblighi, mediante retribuzione, a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale, alle dipendenze e secondo le direttive, almeno di massima e anche se fornite a mezzo di applicazioni informatiche, dell’imprenditore, pure nei casi nei quali non vi sia la predeterminazione di un orario di lavoro e il prestatore sia libero di accettare la singola prestazione richiesta, se vi sia la destinazione al datore di lavoro del risultato della prestazione e se l’organizzazione alla quale viene destinata la prestazione non sia la propria ma del datore di lavoro“.
In sostanza, viene proclamato per legge lavoratore subordinato anche chi, secondo la normativa vigente, la giurisprudenza consolidata e la migliore dottrina, non lo è. Peraltro una normativa siffatta andrebbe ben oltre il caso dei riders per abbracciare molte altre fattispecie di lavoro autonomo che si svolgono normalmente secondo direttive di massima dell’imprenditore (che sono operanti anche quando si tratta di un libero professionista incaricato di svolgere una qualunque prestazione nell’ambito dell’organizzazione del committente).
Ma proprio per non lasciare dubbi interpretativi l’articolo 7 mette bene in chiaro che “Alla consegna di pasti a domicilio si applicano le disposizioni precedenti e le norme legislative in tema di lavoro subordinato se le prestazioni sono espletate nell’ambito di apposita organizzazione apprestata dal committente, ai sensi dell’art. 1, comma 3, della presente legge, ancorché i mezzi di locomozione siano del prestatore e questi abbia facoltà di determinare l’ordine di precedenza delle consegne“.
Proseguendo, viene vietata la retribuzione a cottimo (ovvero la forma ora comunemente usata per remunerare ogni consegna effettuata) per fare posto all’applicazione di un trattamento economico complessivo proporzionato alla quantità e qualità del lavoro prestato e comunque non inferiore ai minimi previsti dal contratto collettivo applicabile all’attività prestata, o, in mancanza, ai minimi previsti, per prestazioni analoghe, dalla contrattazione collettiva nazionale del settore o della categoria più affine.
Fa capolino, poi, un nuovo diritto: il “diritto alla disconnessione” per “almeno undici ore consecutive ogni ventiquattro ore” all’ultimo turno di disponibilità completato. E cioè il rider non è soltanto autorizzato ad accettare o a rifiutare la consegna, ma gli viene riconosciuto il diritto a “staccare la spina” per non essere disturbato.
È prevista anche una fase di sperimentazione degli algoritmi di gestione delle prestazioni e l’obbligo di informare i lavoratori “sulle modalità di formazione, elaborazione dell’eventuale rating reputazionale, e sugli effetti che tale valutazione ha sul rapporto di lavoro”.
Già, gli algoritmi. Chi ha affidato il proprio destino a una piattaforma digitale (come quella che porta il nome del filosofo Rousseau) non poteva non mettere il naso negli algoritmi (che, come è stato fatto notare, appartengono all’ambito del segreto industriale di qualsiasi impresa). Si può, quindi, affermare che – rebus sic stantibus – assisteremo a una “proletarizzazione” dei riders, che diventeranno lavoratori subordinati pur in assenza del requisito fondamentale per la natura di questo rapporto: eseguire la prestazione secondo l’esercizio del potere direttivo del datore. In altre parole, chi è un lavoratore dipendente è tenuto ad attenersi alle direttive del datore. Pertanto, nel nostro caso, a fronte di un trattamento minimo per il tempo messo a disposizione, il datore sarebbe autorizzato a concordare un certo numero di consegne con il rider, a organizzare le priorità, i tempi delle consegne, nel contesto di un orario di lavoro predefinito e delle relative turnazioni.
Secondo il “decreto dignità”, invece, il rider resterebbe libero di accettare o meno la prestazione e di creare così un “buco” nell’organizzazione del servizio. Non parliamo poi dei corollari (ferie eccetera), che si aggiungono all’imposizione di un rapporto di lavoro dipendente.
Per concludere su questo punto, nessuno è insensibile all’esigenza di maggiore tutela di ogni tipologia di lavoro anche nell’ambito della gig economy. Ma non ha senso che, periodicamente, venga scoperta e messa all’indice una particolare tipologia di lavoro o di retribuzione dello stesso, per arrivare a constatare – anni dopo – che il tentativo di “restituire dignità” è clamorosamente fallito e quei posti di lavoro hanno varcato le frontiere, sono stati soppressi o sono sprofondati nel sommerso. E’ stato così nel caso dei call center prima, dei voucher poi, e in generale dei rapporti di collaborazione.
Corre voce che il governo giallo-verde intenda intervenire anche nella disciplina del lavoro a termine, che rimane la forma più utilizzata dalle imprese, soprattutto dopo la riforma Poletti del 2014. Reintrodurre il cosiddetto causalone riaprirebbe un contenzioso che scoraggerebbe le aziende ad assumere. Almeno fino a quando non si arriverà a un regime di “imponibile di manodopera”. Allora, però, non ci saranno più libertà economiche. E saremo a un passo dal venir meno anche delle libertà politiche.