Ugo Forteferro ha una piccola impresa metalmeccanica, come ce ne sono tante, con il proprio piccolo stabilimento nella zona industriale/artigianale, in una di quelle città italiane, come ce ne sono tante. Tra i suoi operai c’è anche Remo Labarca: un lavoratore che fa il suo dovere, come ce ne sono tanti. Il rapporto di lavoro procede tranquillamente, sino a quando, venerdì scorso, Remo si presenta a Ugo e lo avverte: “Da lunedì non vengo più a lavorare”.



Ugo lo guarda un po’ sorpreso, e chiede: “In che senso? Intendi dimetterti? Hai trovato un nuovo lavoro?”

“No – risponde Remo – semplicemente non vengo più a lavorare”.

“Guarda – incalza Ugo – che se non vuoi venire più a lavorare per me sei libero di farlo, ma devi darmi le dimissioni; peraltro ricordati che, come probabilmente ti avrà già detto il sindacato, lo devi fare con la procedura telematica, altrimenti le dimissioni non valgono”.



“Ma io non voglio dare le dimissioni – conferma Remo – semmai, lei mi licenzi”.

E se ne va. Ugo è perplesso, ha l’impressione che gli sia sfuggito qualcosa. Telefona, quindi, al suo Consulente per raccontargli l’episodio e chiedergli che cosa deve fare.

Il Consulente gli conferma che quella espressa da Remo è una vera e propria volontà di dimettersi: tuttavia, l’articolo 26 del Dlgs n. 151/2015 e il Dm 15 dicembre 2015, dispongono che, se il lavoratore non provvede a formalizzare le dimissioni con la procedura telematica prevista da tali norme, dette dimissioni non hanno effetto. E quindi il rapporto di lavoro non cessa.



“E allora ?” chiede Ugo

“E allora – risponde il Consulente – se vuoi che davvero il rapporto di lavoro finisca, senza che sorgano tante complicazioni di tipo giuridico, ti consiglio, fra qualche giorno, di fargli una contestazione disciplinare per assenza ingiustificata, e poi di licenziarlo”.

Della storia appena raccontata soltanto i nomi sono di fantasia. Di simili situazioni, ormai, se ne contano tante, e la loro ragion d’essere è ben nota. Tutti sanno, infatti, che il lavoratore dimissionario (salvo che le dimissioni non siano rassegnate per giusta causa) non ha diritto alla Naspi, cioè all’indennità di disoccupazione. Se, invece, viene licenziato, l’indennità viene regolarmente erogata.

La finalità della disciplina dalla quale si desume tale distinzione (articolo 3, Dlgs n. 22/2015) è chiara e condivisibile: la prestazione non spetta, qualora la perdita del posto di lavoro sia avvenuta per esclusiva volontà del dipendente.

Tuttavia, la legge non prende espressamente in considerazione l’ipotesi nella quale il dipendente, abusando della rigidità formale della disciplina delle dimissioni telematiche – che impedisce di affermare l’efficacia delle dimissioni stesse, se la procedura di legge non viene rigorosamente rispettata – di fatto costringe il datore di lavoro che voglia veder riconosciuta la cessazione del rapporto ad adottare un formale provvedimento di licenziamento.

Tale situazione – che, lo si ribadisce, nella prassi ormai si riscontra in un gran numero di casi – realizza una duplice conseguenza.

Il datore di lavoro deve pagare il cosiddetto ticket di licenziamento, pari al 41% del massimale mensile Naspi, per ogni 12 mesi di anzianità aziendale maturata negli ultimi tre anni. In soldoni, per i dipendenti con anzianità pari o superiore a 36 mesi il contributo è pari a 990,68 euro x 3 = 2.972,04 euro.

Ma soprattutto, il lavoratore riesce in questo modo a fruire della prestazione di disoccupazione che, in caso di anzianità contributiva di 4 anni o più, può raggiungere la durata di 24 mesi.

Il “giochetto”, dunque, serve innanzitutto a lucrare la prestazione a tutti coloro che, durante questo periodo, riescono a rioccuparsi “in nero”. Ma la manovra è di grande utilità anche a coloro che vogliano finanziare l’inizio di un’attività lavorativa autonoma. Anzi, in questi casi, il lavoratore non corre neppure alcun rischio, perché non deve affatto nascondere la sua nuova occupazione. Basta, infatti, che dia inizio, con gli adempimenti di legge, alla nuova attività di lavoro autonomo, dandone comunicazione formale all’Inps, affinché l’Istituto – legittimamente – gli liquidi in un’unica soluzione tutte le rate di Naspi che gli sarebbero spettate qualora fosse rimasto senza lavoro.

A questo fenomeno, che ha assunto dimensioni rilevanti, allo stato né il legislatore né le prassi amministrative hanno saputo (o voluto) trovare un rimedio efficace. Solo di recente – a quanto consta – alcune sedi dell’Inps hanno iniziato a negare la prestazione previdenziale.

È, dunque, opportuno che i datori di lavoro inizino a denunciare tali abusi e che l’Inps e l’Ispettorato del lavoro diano loro chiare indicazioni sui comportamenti da tenere e sulle modalità con le quali intendono contrastare tale fenomeno. Magari non solo chiarendo una volta per tutte che in questi casi di “sostanziali dimissioni” il lavoratore non accede alla Naspi, ma anche ammettendo che il datore di lavoro non dovrebbe essere assoggettato (come, invece, ancor oggi è) al costo del ticket di licenziamento.