I due studenti fuori corso, che affiancano nel governo il professore venuto dal Nulla, hanno trovato il modo di solleticare – a poco prezzo – gli istinti peggiori degli italiani di oggi. Il primo, Matteo Salvini, facendo la voce grossa contro i “dannati della terra”, si avvale della “percezione” (sobillata) del fenomeno migranti, per fomentare un senso di paura spesso irrazionale e immotivato (perché l’invasione dei negher, finanziata da Soros, non esiste). L’altro, il giovane Luigi Di Maio, per recuperare lo svantaggio nei confronti dell’energumeno del Viminale, sta alimentando l’invidia sociale che, in materia di pensioni, è sempre una ferita aperta e purulenta.



E così il governo giallo-verde ha trovato i suoi primi nemici: da un lato, i poveracci che vengono a cercare la “pacchia” da noi; dall’altro, coloro che – grazie alle pensioni d’oro, percepite senza vergogna – solcano a bordo di lussuosi yacht quello stesso mare in cui annegano in media più di mille persone all’anno sulle rotte della speranza.



Dopo il lavoro ai fianchi condotto per anni dai talk show, è quasi tempo perso mettersi, non dico a difendere, ma almeno a chiarire la questione dei trattamenti che vengono messi alla gogna come se la legalità non avesse più voce in capitolo in uno Stato etico, nel quale le decisioni non sono più assunte in conformità alle leggi vigenti, bensì secondo i precetti di una sharia apocrifa dettata da chi si arroga il diritto di amministrare la giustizia in nome del popolo. E’ bene, allora, fare il punto su di che cosa si parla, spesso a vanvera, sempre in modo approssimativo o per sentito dire.



Le cosiddette pensioni d’oro (ovviamente non esiste un metro di misura ufficiale che ne stabilisce i carati; pertanto ognuno si sente autorizzato a “indorare” una prestazione superiore alla sua) sono un effetto collaterale di una riforma (legge delega n. 153 del 1969) che anticipò tutte le svolte del cosiddetto autunno caldo. In precedenza, il sistema poggiava su un rozzo sistema contributivo (le “marchette”), che considerava l’intera vita attiva del lavoratore. I sindacati, che in quegli anni si battevano per il cosiddetto aggancio (vedremo in seguito di che cosa si trattava) avevano un problema da risolvere: come erogare una pensione dignitosa a quanti avevano avuto una storia lavorativa e contributiva piuttosto accidentata nell’immediato dopoguerra o avevano abbandonato – nei tempi dell’immigrazione interna verso il triangolo industriale – la terra natale, dove non c’era lavoro o se c’era non era certo regolare; oppure a quanti avevano visto sfumare i loro versamenti, relativi ad attività lavorative antecedenti il conflitto, per via dell’inflazione post-bellica.

L’imperativo categorico divenne il seguente: conquistare un sistema pensionistico – anche per i lavoratori dipendenti privati (quelli pubblici andavano in quiescenza praticamente con un trattamento corrispondente in tutto o in parte all’ultimo stipendio percepito) – che consentisse una sostanziale equipollenza della pensione rispetto alla retribuzione raggiunta negli ultimi anni di attività (per i lavoratori autonomi fu disposto un analogo regime con una legge del 1990). Così, in base al regime dell’aggancio alle ultime retribuzioni (definito retributivo), gli anni di lavoro precedenti gli ultimi tre, poi divenuti cinque (e dieci dopo le riforme a partire dal 1992), servivano soltanto a determinare, a prescindere dai contributi versati sopra la soglia minima, l’anzianità di servizio, allo scopo di calcolare l’importo della pensione secondo la seguente formula vigente nel settore privato:

2% x n = % della retribuzione pensionabile degli ultimi anni di lavoro.

Il 2% rappresentava il rendimento per ogni anno di servizio, “n” il numero degli anni: il che dava modo di percepire, al massimo, l’80% con 40 anni di assicurazione (o, in proporzione, meno a seconda del numero degli anni lavorati).

Come è facile comprendere, nell’aver concesso per decenni pensioni non sostenute da un corrispondente supporto contributivo, sta la radice non solo del disavanzo pensionistico, ma anche di gran parte del debito pubblico.

A queste regole si aggiunsero le pensioni di anzianità, che consentivano l’accesso alla quiescenza sulla base di un requisito contributivo pari a 35 anni (20 o 25 o ancora meno nel Pubblico impiego, poi ulteriormente ridotti per le baby pensioni) a prescindere dall’età anagrafica, allo scopo di risarcire così i cosiddetti lavoratori precoci, arruolati in giovane età nei ranghi della società industriale. Così milioni di lavoratori hanno potuto accedere volontariamente alla pensione o essere costretti a farlo in qualità di esuberi dei processi di ristrutturazione produttiva a un’età di poco superiore a 50 anni (nonostante che, in seguito, fosse stato inserito anche un requisito anagrafico).

Questo è l’ordinamento che, entrando in sinergia che un’imponente accelerazione dell’attesa di vita, avrebbe portato, in mancanza di riordino, al collasso (con una spesa fino al 23% del Pil intorno al 2030) il sistema pensionistico e le finanze pubbliche.

La riforma del 1995 (la legge n. 335 varata dal governo Dini) si fece carico di superare lo squilibrio determinato dal sistema retributivo che, in sostanza, a fronte anche dell’incremento dell’attesa di vita, tendeva a regalare ai pensionati un certo numero di anni di prestazioni non coperti dal montante contributivo. Va ricordato, tuttavia, che nel regime retributivo non era tutto una cuccagna. Erano previsti dei correttivi: all’inizio un tetto massimo all’importo delle pensioni, di 12 milioni di lire annui, poi raddoppiati a 24 milioni. Intervenne, però, una sentenza della Consulta, che dichiarò illegittimo il tetto, per il fatto che operava solo sulla prestazione e non sulla contribuzione, la quale, invece, era applicata sull’intera retribuzione percepita. Vi era, quindi, una discrepanza tra i contributi versati e il loro corrispettivo in termini di pensione.

Alla fine degli anni 80, a tale situazione fu posto rimedio con una normativa tuttora vigente. Il rendimento del 2% annuo veniva garantito fino a un certo importo della retribuzione (oggi si è arrivati a circa 45mila euro annui), mentre per le fasce superiori il rendimento decresceva gradualmente fino allo 0,90%. È un correttivo importante, che riduce l’effetto premiale del calcolo retributivo, che – come dimostra il grafico sottostante – determina un minore scostamento rispetto ai contributi versati nel caso delle pensioni più elevate se messe a confronto con quelle di valore medio-basso. In sostanza, lo scostamento con la contribuzione versata è più marcato per i trattamenti intorno ai 4mila euro lordi che per quelli più elevati.

Fonte: da una elaborazione di Fabrizio e Stefano Patriarca

Ma è il momento di ricordare anche che nel confronto tra il sistema retributivo e quello contributivo circolano tante leggende metropolitane. Come se il primo fosse una sorta di furto legalizzato e il secondo una condanna ai lavori forzati. Nel retributivo, infatti, la pensione è sottoposta a un tetto massimo di 40 anni: quelli lavorati in più subiscono il prelievo sulla retribuzione, ma “non fanno” anzianità. Nel regime contributivo, invece, contano tutti i versamenti effettuati: chi ha lavorato più a lungo percepisce una pensione migliore, perché il montante accreditato viene moltiplicato per un coefficiente di trasformazione più elevato in relazione all’età del pensionamento. I lavoratori con retribuzioni maggiori, peraltro, versano i contributi soltanto su un massimale attualmente di circa 100mila euro l’anno (al di sopra non sono previste ritenute e, ovviamente, le quote ulteriori non sono considerate retribuzione pensionabile, mentre viene favorita la loro allocazione a una forma di previdenza complementare).

Ciò spiega perché sarebbero i redditi più elevati e le carriere più lunghe a essere premiate (o quanto meno risparmiate) dalla minaccia ricorrente del ricalcolo come emerge chiaramente dal grafico. Non a caso, il legislatore ha sempre scoraggiato (nella legge di Stabilità del 2015 ha addirittura punito) chi si fosse avvantaggiato applicando il calcolo contributivo.

Tutto ciò premesso, la domanda è: si può riscrivere la storia? È lecito, a cinquant’anni di distanza, condannare un metodo di calcolo che il legislatore volle proprio così? Poi le distorsioni sono apparse evidenti: chi arriva a essere dirigente a fine carriera va in pensione con un trattamento da dirigente, anche se ha cominciato da fattorino. Sono possibili elusioni “legali”, gonfiando a bella posta le retribuzioni degli ultimi dieci anni. Ma esiste un modo postumo di “fare giustizia”, soprattutto quando i relativi dati riguardanti i versamenti sono reperibili solo dal 1974 per quanto riguarda il lavoro dipendente privato e dal 1996 per il pubblico impiego?

L’errore strategico venne commesso nel 1995, al tempo della riforma Dini, che – nella logica perversa, a lungo ripetuta, di proteggere i lavoratori più anziani – volle mantenere all’interno del modello retributivo coloro che avevano maturato, alla fine del 1995, almeno 18 anni di versamenti. Se, allora, si fosse deciso il passaggio pro rata al calcolo contributivo anche per questi ultimi, si sarebbero risparmiati un sacco di problemi, organizzando un sistema pensionistico più equo.

In ogni caso, come afferma Marc’Antonio a conclusione della commemorazione sul cadavere di Cesare, “Malanno, sei scatenato, ora compi il tuo corso!”. Vedremo, dunque, che cosa succederà ai percettori delle cosiddette pensioni d’oro, indicati al popolo come profittatori di regime, al cospetto di tanti che devono arrangiarsi a sbarcare il lunario con pensioni troppo basse.

Anche su questo punto, non sarebbe male fare un po’ di chiarezza. Chi percepisce una pensione minima non è una vittima del sistema, ma una persona che per qualche ragione ha lavorato per un periodo breve, magari sottraendosi all’obbligo contributivo più o meno volontariamente. Varrebbe, altresì, la pena di ricordare che le pensioni minime raggiungono il livello garantito dalla legge grazie a circa 21 miliardi trasferiti dal bilancio dello Stato, provenienti dalla fiscalità generale, che vanno a integrare le prestazioni a calcolo sulla base dei requisiti che gli interessati sono in grado di far valere.

Resta, poi, un ultimo paradosso da sottolineare: i percettori di una pensione mensile netta di 5mila euro (quelli che sono nel mirino dei “moralizzatori”) sono sottoposti a un prelievo fiscale sul reddito pari al 43%. Se i “fenomeni” che ci governano daranno attuazione alla flat tax, l’aliquota Irpef dei pensionati Paperoni si ridurrà al 15%. E’ stato calcolato che, in questo modo, non solo sarà ammortizzato il taglio della pensione, ma il reddito netto dei ”nababbi” aumenterà mediamente del 30%.

Si potrebbe parlare, allora, di eterogenesi dei fini: delle prestazioni erogate sulla base delle norme vigenti sarebbero tagliate, mentre verrebbe meno – in palese violazione della Costituzione – la progressività dell’imposizione fiscale. Tutto ciò quando, in uno Stato di diritto, la redistribuzione solidale del reddito è affidata al sistema di tassazione.