Una parte rilevante del cosiddetto “decreto dignità” riguarda le delocalizzazioni, questione a cui lo stesso Ministro Di Maio ha dato risalto nel presentare l’intervento. Il fenomeno è sempre più centrale nell’andamento economico: sono sempre più frequenti i casi di imprese – italiane ed estere – che spostano la produzione laddove trovano condizioni per loro migliorative. È vero che ci sono casi in cui gli investitori hanno approfittato delle agevolazioni che hanno avuto dallo Stato italiano e anche – si pensi all’eccellenza del nostro manufacturing – del know how che hanno acquisito. Ma il fenomeno è molto più complesso del semplice costo del lavoro altrove (specialmente a Est) inferiore.



Venendo al decreto in oggetto, questo prevede multe per chi delocalizza: alle aziende che hanno ricevuto aiuti di Stato e che delocalizzano le attività prima che siano trascorsi dieci anni, arriveranno sanzioni da 2 a 5 volte il beneficio ricevuto; andrà recuperato anche l’iperammortamento in caso di delocalizzazione o cessione degli investimenti. Il decreto è imperniato quindi su un meccanismo punitivo a contrasto del fenomeno delle delocalizzazioni. Ora, premesso che qualche investitore che fa il furbo lo abbiamo, è chiaro altrettanto che per rendere meno frequenti le delocalizzazioni, più che punire chi delocalizza bisogna rendere più attrattivo il terreno per chi investe. E il problema del costo del lavoro – a parte il fatto che il nostro è in linea con la media europea – è parziale.



Il gap che abbiamo in aspetti determinanti per la crescita – quali fisco, energia, burocrazia e infrastrutture – è noto da anni. Per quanto riguarda il gettito fiscale così pressante per le imprese (e per le famiglie), curiosamente negli ultimi anni si è speso più il sindacato che le organizzazioni datoriali. L’energia ci costa circa il 30% in più dei nostri diretti competitor, avendo noi rinunciato al nucleare. Da quanti anni parliamo poi di semplificazione? La burocrazia e i suoi costi, soprattutto per le nostre Pmi (che non hanno la forza organizzativa delle multinazionali), sono una zavorra. In ultimo, il problema delle infrastrutture – i comitati per il no ogni qual volta si ponga il problema di uno sviluppo della nostra rete paese – è qualcosa che prima o poi bisognerà mettere a sistema, dato che per l’industria – e fino a prova contraria l’Italia continua a essere il secondo Paese manifatturiero d’Europa . gli aspetti della logistica sono vitali. Un esempio su tutti: la rete stradale che circonda il Petrolchimico di Augusta-Siracusa – uno dei distretti industriali più importanti che abbiamo, dove sono presenti 4 tra le 30 aziende con maggior fatturato in Italia – è assolutamente inadeguata: rete debole, poco manutenuta e, anche, con scarsa ricezione della linea telefonica mobile.



I furbi vanno certamente puniti, ma sono questi i veri problemi che fanno scappare gli investitori. L’Italia, per il futuro del suo manufacturing, ha prima di tutto bisogno di rilanciare la sua capacità attrattiva.

Twitter: @sabella_thinkin

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