In economia i termini qualitativi contrapposti alle analisi quantitative servono spesso a mascherare scelte ideologiche e a non affrontare i problemi reali. In una fase di grandi cambiamenti strutturali servono soprattutto a dare l’idea che si possano fermare per legge le trasformazioni della realtà. La nostalgia per il mondo conosciuto tende così a prevalere sugli sforzi di adeguare i propri comportamenti ai cambiamenti in atto. Le posizioni diventano così apparenti da creare un’inversione rispetto alle tradizionali collocazioni destra-sinistra. Con slogan di “sinistra” si propone una legge per la dignità del lavoro, il cui contenuto è una reazione conservatrice rispetto alle riforme fatte e soprattutto non tiene conto di come è cambiata la realtà.
Ciò che è richiesto è una nuova capacità di elaborazione perché diritti e tutele dei lavoratori possano essere adeguati ai cambiamenti che avvengono. L’idea conservatrice è invece che si possa tenere il mondo come lo conoscevamo e che, senza cambiamenti, staremo tutti meglio. Ciò sarebbe credibile se fossimo nel migliore dei mondi possibili. Ma così non è.
È arrivata proprio in questi giorni una ricerca Ocse relativa alla mobilità sociale che ci indica come non solo non siamo nel migliore dei mondi possibili, ma che se non osiamo immaginare interventi strutturali questo mondo è destinato a creare nuove e più profonde ingiustizie sociali. La mobilità sociale ci indica quanto sia possibile migliorare la propria situazione economica attraverso il lavoro. Ciò richiede un forte investimento in formazione e un impegno negli incarichi lavorativi cui si accede. È così possibile misurare la probabilità di cambiare classe sociale nel corso della propria vita.
Oggi si calcola che in Europa per chi proviene dal 10% più povero occorrano 4,5 generazioni per raggiungere il reddito medio del proprio Paese. Per quanto riguarda l’Italia servono 5 generazioni, come altri paesi sviluppati fra cui gli Usa (altro che sogno americano). Meglio i paesi nordici e scandinavi dove bastano 2 o 3 generazioni. Ma non è sempre stato così. Per i nati nei primi 20 anni del secondo dopoguerra vi è stata una possibilità concreta per accedere alla classe media nel corso di 1 o 2 generazioni. Oggi invece l’ascensore sociale si è rotto e il 70% dei più ricchi rimane tale mentre è il 60% dei più poveri che non si discosta dalla condizione iniziale. Per la classe media risultano però maggiori gli arretramenti rispetto ai passi in avanti.
La ricerca Ocse cerca tuttavia di mostrare soluzioni e indica quale risulta essere il driver principale su cui intervenire. La parola magica indicata dalla ricerca è formazione. Assicurare un alto tasso di formazione per una quota significativa della popolazione si ritiene che possa rimettere in movimento l’ascensore oggi bloccato. Ciò non solo per motivi di solidarietà, ma perché se vogliamo più crescita economica, quindi più produttività e Pil, è verificabile che serve un capitale umano fortemente qualificato e un mercato del lavoro ad alto tasso di inclusività. Oggi invece in Italia la situazione appare bloccata già nella fase scolastica. I dati ci dicono che due terzi dei giovani che provengono da una famiglia con basso tasso di istruzione restano allo stesso livello educativo dei genitori. Dal lato occupazionale risulta che il 40% dei figli di lavoratori manuali a bassa qualifica diventano a loro volta lavoratori manuali. La “trappola” della mobilità sociale italiana è perciò ben definita da un sistema educativo e formativo che esclude ancora troppi giovani e da un mercato del lavoro poco inclusivo.
Agire su questi due termini diventa prioritario per segnare una svolta rispetto alla situazione esistente. Non si tratta di tornare indietro a periodi non più riproducibili, ma di affrontare il futuro con forti investimenti per offrire a un numero maggiore di giovani occasioni per valorizzare i propri talenti. Ciò che serve è fare studiare di più i giovani. Portarli a un livello terziario di competenze. Non ci sono solo licei e università. È possibile potenziare e dare certezze di diritto e di risorse a quanti hanno investito nel sistema duale. Dai corsi di istruzione e formazione professionale, cui seguono i percorsi in Ifts e poi gli Its, si possono formare centinaia di migliaia di nuovi professionisti. Le figure professionali più richieste, che le imprese oggi faticano a trovare, possono venire da questi nuovi percorsi formativi che danno forza a chi si proporrà sul mercato del lavoro. Permettono, lungo tutto l’arco di durata della formazione, di alternare scuola e lavoro direttamente con inserimenti in apprendistato. Quindi con contratto di lavoro ben più tutelante (anche come salario) rispetto a stage e tirocini.
Occorre però una convinta continuità da parte dei governi a perseguire questa strada. Non può produrre risultati che nel medio periodo e perciò non può essere rimessa in discussione di continuo da chi pretende che tutti passino per l’università o da chi sogna che la qualità del lavoro possa derivare dalla legislazione sui contratti. A questi investimenti formativi vanno affiancati altri due provvedimenti essenziali. Da un lato la creazione di reti di protezione per le fasce povere della popolazione: il reddito di inclusione appena avviato indica che una fascia importante della società necessita di sostegno sia al reddito, sia per servizi che assicurino un lavoro inclusivo. Dall’altro lato è necessario che i fondi interprofessionali operino con più decisione e diano vita a un programma di formazione per gli occupati che sia la vera tutela nei confronti dei cambiamenti produttivi.
Il mondo migliore non è dietro di noi, ma occorre studiare e lavorare perché sia nel nostro futuro.