RIFORMA PENSIONI. “L’uomo del Monte ha detto sì”. Era questo lo slogan pubblicitario di un’impresa alimentare che produceva succhi di frutta. Il sì di questo signore sdoganava la lavorazione del prodotto. Anche per quanto riguarda il futuro della riforma Fornero delle pensioni, messa sotto tiro incrociato dai nuovi dioscuri de noantri è arrivato un uomo del Monte a dire sì e ad attribuirsi (ce ne eravamo accorti leggendo le conclusioni del Quinto Rapporto di Itinerari previdenziali) il merito delle proposte che il governo giallo-verde varerà in via prioritaria. Si tratta di Alberto Brambilla, già sottosegretario di Roberto Maroni, da sempre indicato dalla Lega (a partire dalla riforma Dine del 1995) per seguire la questione della previdenza.
Diversamente da tanti apprendisti stregoni che pontificano soluzioni strampalate (questa maggioranza ne ha in esubero), Brambilla è un esperto che “dà la linea” e può vantare di aver seguito, per conto del governo, provvedimenti importanti (come la disciplina della previdenza complementare), di aver presieduto il Nucleo di valutazione della spesa previdenziale, fino al suo scioglimento e di pubblicare, con la sua fondazione, un rapporto molto ricco di dati e informazioni sul complesso delle istituzioni di protezione sociale. Queste circostanze, ovviamente, non comportano l’obbligo di essere sempre d’accordo con lui e di assumere le sue convinzioni come oro colato. Certo, Brambilla merita quel rispetto che non è dovuto a tanti ciarlatani che si sperticano a elogiare il contratto e il governo di Giuseppe Carneade Conte.
In un’intervista a La Repubblica il nostro fornisce qualche chiarimento sulle coperture finanziarie per le misure scritte nel contratto: l’argomento di maggiore attualità sul quale circolano costi approssimativi, spesso di diverso importo a seconda delle stime, tutte comunque superiori (come multipli) ai 5 miliardi indicati. Le stime sono inesatte “perché non si conosce la proposta – afferma Brambilla -. L’idea è di mandare in pensione chi ha almeno 64 anni con 36 di contributi. Oppure 41 anni e mezzo di contributi, a prescindere dall’età e non più di 2-3 anni di contributi figurativi, per escludere chi è stato in cassa integrazione per 10 anni, ad esempio. Consentire di uscire a 64 anni significa di fatto annullare lo scalone Fornero che ha portato l’età a 67 anni dal 2019. Ma guai a pensare che con quota 100 risolviamo ogni problema”.
L’introduzione di una soglia anagrafica minima per quanti utilizzeranno l’uscita a “quota 100” è senza alcun dubbio una misura di contenimento del numero dei trattamenti e quindi della spesa. I criteri indicati nell’intervista (64 anni di età e 36 di contributi magari anche in questo caso con una limitazione per la contribuzione figurativa) sono molto rigidi: quando nel 2007 furono istituite le quote erano previste – sia pure in presenza di un requisito anagrafico minimo – due possibili combinazioni tra gli addendi chiamati a dare somma 100. Inoltre – sia pure con taluni limiti – sembra essere più conveniente l’utilizzo dell’Ape sia essa sociale o volontaria (la sola misura, quest’ultima, che sarebbe confermata), sia per quanto riguarda l’età che per il requisito contributivo. Va altresì fatto notare che nel 2019 il pacchetto Ape non è finanziato; pertanto la sua abolizione non può essere considerata un risparmio di spesa a compensazione dei maggiori oneri derivanti dalle modifiche della disciplina introdotta nel 2011.
Brambilla, poi, ha una strana considerazione dei dati statistici e della loro comunicazione in sede europea. Li riclassifica come gli pare – avvalendosi del luogo comune della separazione dell’assistenza dalla previdenza – allo scopo di fornire una interpretazione “addomesticata” della spesa pensionistica. All’Istat non sono dei masochisti intenzionati a mettere in cattiva luce il Paese, ma forniscono a Eurostat e agli altri osservatori i dati organizzati secondo specifiche classificazioni definite in sede Ue e internazionale. Pertanto l’Italia non può cambiare le carte in tavola secondo proprie valutazioni. Volendo si possono definire altri criteri, ma devono essere comuni e concordati nelle sedi appropriate.
Queste nostre considerazioni convergono con quelle esposte in una nota da Stefano Patriarca – in merito al Quinto Rapporto di Itinerari previdenziali – che riproduciamo di seguito: “La valutazione della componente pensionistica previdenziale così come stimato nel rapporto non sembra avere sufficiente base metodologica e differisce da tutte le analisi statistiche e scientifiche prodotte a livello nazionale ed internazionale. La ripetuta critica all’Istat, come istituto che fornirebbe i dati erronei all’Europa è priva di senso e sembra ignorare che le statistiche sulla protezione sociale e sul sistema pensionistico sono definita in base ad una metodologia precisa, pubblicata e a disposizione di tutti, e sono fatte, quando sono utilizzate per confronti in sede Ue, con una metodologia molto precisa comune concordata con tutti i paesi con la supervisione di Eurostat”.
Vi sono poi altre stranezze nelle proposte che Brambilla suggerisce al governo. È chiaro che i nuovi requisiti (quota 100 o 41 anni e mezzo di versamenti) sarebbero difficilmente raggiungibili dalle lavoratrici e, in futuro, dai giovani. Ne deriva che è molto importante capire quali proposte riguardano il trattamento di vecchiaia (la tipologia usata in prevalenza dalle donne). A quanto sembra di capire per questo istituto continuerebbe a essere applicato l’aggancio automatico all’attesa di vita. Al di là di quanto affermato nell’intervista a la Repubblica questa intenzione è espressa molto chiaramente nelle conclusioni del Quinto Rapporto. “Sono quindi preferibili politiche – è scritto – che tendano a premiare il ‘lavoro’, la ‘fedeltà contributiva’ e le lunghe carriere per cui l’indicizzazione dell’età di pensionamento alla aspettativa di vita resta un requisito irrinunciabile per gli equilibri del sistema (soprattutto per le pensioni di vecchiaia con carriere brevi e per quelle assistenziali), ma occorre altresì reintrodurre elementi di flessibilità in uscita ripristinando le caratteristiche della legge n.335/1995. A tal fine si dovrebbe in prima battuta sganciare l’anzianità contributiva dall’aspettativa di vita (una caratteristica solo italiana introdotta con la riforma Fornero) prevedendo un massimo di 41 anni e mezzo di contribuzione con un massimo di 3 anni di contributi figurativi e un’età minima di 63 anni d’età. È scarsamente equo (e, si potrebbe dibattere, forse anche poco costituzionale) immaginare che un lavoratore possa accedere alla pensione con solo 20 anni di contributi e 67 anni di età (magari facendosi integrare la prestazione per via della modesta pensione a calcolo) e che un altro con oltre il doppio dei contributi e senza rischi di integrazioni a carico dell’erario, debba lavorare per oltre 43 anni (nel 2019)”.
Si tratta di opinioni molto discutibili che tutelano la classe lavoratrice del baby boom in via di profonda trasformazione, mentre penalizzano i settori deboli del mercato del lavoro, in particolare le donne e giovani. A ogni buon conto, Alberto Brambilla non è un demagogo; conosce i problemi e i rischi che corre il sistema pensionistico. Se approderà al Lavoro sarà quanto di meglio questa nuova classe dirigente è in grado di esprimere in questo settore.