Il nuovo governo Conte, sostenuto da Movimento 5 stelle e Lega, si è insediato. Il nuovo ministro del welfare è il candidato alla presidenza del Consiglio Luigi Di Maio. Dovendo rinunciare al massimo incarico di governo perché frutto di coalizione parlamentare e non del risultato elettorale, ha però sommato due deleghe “pesanti”. Oltre al welfare anche quella allo sviluppo economico.



La scelta è dal punto di vista della coerenza propagandistica assolutamente comprensibile. Il Movimento ha puntato molto, nel corso della campagna elettorale, su temi che avevano al centro il lavoro e lo sviluppo. Più con posizioni negative che propositive, ma certo avevano su questi temi fatto molte manifestazioni. Le posizioni contrarie ai grandi investimenti, e soprattutto al rilancio dell’Ilva (20.000 occupati fra diretti e indiretti), li ha visti contrapporsi a molte scelte caratterizzanti le politiche sostenute dal ministro uscente Calenda. Altrettanto centrali erano le proposte per la revisione della riforma pensionistica “Fornero” e il reddito di cittadinanza. Proposte che sono state i principali cavalli di battaglia della campagna elettorale.



Con il contratto di governo sottoscritto dai due partiti che hanno dato vita alla nuova maggioranza, tali temi sono divenuti parte del programma comune e sono state ribadite come le riforme prioritarie anche dalle prime dichiarazioni fatte dal nuovo ministro. Non conoscendo ancora la forma compiuta con cui si intenderà dare forma ai provvedimenti annunciati, tralascio qui la polemica, già sollevata da molti, relativa alla copertura di tutto quanto è stato annunciato, dovendo rispettare l’impegno a non creare nuovo deficit cui è sottoposta la nostra spesa pubblica.

Ciò che però balza in evidenza è che i due incarichi riunificati in un unico ministero sono fra loro in tensione se non vengono chiarite le priorità assegnate alle riforme che si intendono attuare. Il ministero per lo Sviluppo economico ha come priorità quello di operare per favorire investimenti che siano in grado di difendere e sviluppare le imprese del nostro Paese per permettere una nuova crescita della domanda di lavoro e quindi nuova occupazione. La politica per Impresa 4.0 è stata una svolta che ha permesso un importante sostegno agli investimenti per l’ammodernamento tecnologico e organizzativo del nostro sistema produttivo. Anche le scelte operate per la gestione della crisi (sono esemplari i casi di Alitalia e Ilva) hanno sempre puntato a difendere imprese strategiche coinvolgendo nuovi capitali e difendendo così l’occupazione possibile.



Fare politiche del lavoro significa invece spendere per favorire un buon funzionamento del mercato del lavoro. Ma la priorità va sicuramente assegnata alle politiche per lo sviluppo al fine di permettere la creazione di nuovi posti. Solo così potremo ottenere un aumento stabile del tasso di occupazione, maschile e femminile, al nord come al sud e rispondere alla necessità di assorbire la forte disoccupazione giovanile esistente.

Gestire in un’unica figura ministeriale la tensione fra politiche del lavoro e quelle dello sviluppo rischia di creare cortocircuiti non virtuosi e di non favorire chiarezza nelle priorità che devono essere perseguite. Ciò trova conferma nell’annuncio fatto relativo alle politiche di welfare che si intendono attuare. Le prime proposte avanzate riguardano le pensioni, parti del Jobs Act e il famoso reddito di cittadinanza.

Per le pensioni il ministro ha fatto riferimento alla revisione della “Fornero” attraverso la quota 100. La somma fra età e anni di contribuzione deve fare 100 per poter accedere alla domanda di pensione. Apparentemente è per favorire coloro che hanno iniziato a lavorare in giovane età, ma se, come traspare, il provvedimento dovesse finanziarsi portando il calcolo pensionistico solo con il modello contributivo, avrebbe come risultato di decurtare di molto le pensioni delle fasce di lavoratori dipendenti con reddito più basso. Per operare un riequilibrio di equità e di sostenibilità il settore pensionistico richiede più attenzione dei facili slogan e delle ricette semplicistiche.

Per quanto attiene il Jobs Act si fa invece riferimento a interventi, non meglio specificati, che contengano la crescita di contratti a termine e forme di precarietà. Su questi temi troveranno più ipotesi già allo studio del ministero sugli abusi di tirocini e stage, così come per i contratti a termine. Si tratta quindi di decidere, e convincere le regioni a uniformarsi, per favorire sistemi contrattuali che, pur nella flessibilità richiesta dai mutamenti produttivi, assicurino tutele universali per le diverse tipologie contrattuali.

Il reddito di cittadinanza ha assunto invece nelle ultime versioni la caratteristica di una revisione delle politiche attive entrate in vigore come ultime attuazioni del Jobs Act. Con tale termine si fa riferimento al reddito assegnato a coloro che, in cerca di lavoro, dovranno seguire un percorso di formazione e accettare una delle tre proposte di lavoro che dovranno ricevere entro i 24 mesi in cui godranno del “reddito garantito”. Assomiglia alla somma degli assegni di ricollocazione, Naspi e reddito di inclusione, che sono stati introdotti nell’ultimo anno proprio per gli scopi che oggi si assegnano, con un unico termine, al reddito di cittadinanza.

Ingenuo pensare che ciò possa essere gestito dai Centri per l’impiego potenziati da nuove assunzioni. Pur tralasciando il tema dei costi vi è la necessità di formare nuove professionalità inesistenti oggi nei Cpi. Per questo si deve ragionare sul fare rete di operatori pubblici e privati perché decollino subito sportelli capaci di prendere in carico i disoccupati, fornire loro il reddito necessario, ma soprattutto capaci di individuare un percorso di ricollocazione positivo.

Come si vede alle semplificazioni elettorali dovranno seguire scelte che non permettono di operare come se non esistesse già una realtà di servizi, di investimenti, di operatori impegnati nei diversi settori; soprattutto si deve scegliere nell’ambito delle priorità: sviluppo per più occupazione o reddito per non lavorare. Le due scelte non possono convivere e richiedono capacità di scelta politica.