Il mondo del lavoro è sempre più globalizzato e questo implica il generarsi di  opportunità quanto di nuove sfide. Una di queste ultime è quella di integrare e valorizzare al massimo le differenze, che aumentano nel tempo, all’interno delle organizzazioni. A partire dagli anni Ottanta, negli Stati Uniti, di questa tematica si sono occupati in modo sempre più diffuso gli studiosi del Diversity Management, ossia della gestione e valorizzazione delle diversità negli ambienti di lavoro. Diversità relative agli aspetti culturali, di genere, di età, disabilità, o meglio diversabilità, di orientamento sessuale e via dicendo.



Prima di entrare nel merito è bene ribadire che quella dell’integrazione creativa delle differenze in una società diventerà una necessità aziendale sempre più importante, anche se attualmente in Italia questa sfida è stata accolta soprattutto dalle grandi aziende e dalle multinazionali. Molte imprese, infatti, sono frenate dall’investire su questo tema a causa di quattro principali tipologie di costi: la prima è rappresentata dai costi organizzativi, perché affrontare il tema della diversity significa studiare una nuova, e spesso più strutturata, strategia dei sistemi di gestione del personale. La seconda tipologia consiste nei cosiddetti “costi opportunità”: parte del tempo del top management e dei dirigenti viene infatti “trasferito” e indirizzato alla creazione di nuove soluzioni aziendali. Il terzo costo è costituito dalle spese implicite relative ai cambiamenti culturali. Il cambiamento, infatti, può procedere con tempistiche superiori rispetto a quelle preventivate o può addirittura non avvenire. La quarta tipologia di costo è rappresentata da quello legale, ossia l’investimento richiesto per attuare gli obblighi di legge riguardanti le pari opportunità sul lavoro.



Nonostante questi possibili ostacoli ritengo che le società sarebbero avvantaggiate dall’investire su una gestione delle risorse umane in un’ottica di diversity, sia per ragioni etiche, sia per l’immediata ricaduta sull’aspetto di business. La Commissione europea ha infatti elencato cinque vantaggi derivanti dal diversity management: 1) il rafforzamento dei valori culturali all’interno dell’organizzazione; 2) la promozione dell’immagine dell’impresa; 3) maggiore capacità di attrazione del personale qualificato; 4) miglioramento della motivazione e dell’efficienza della forza lavoro; 5) miglioramento dell’innovazione e della creatività.



Se dunque sono ormai chiari i costi e i vantaggi che nascerebbero dall’adozione di politiche sulla diversity, lo stesso non può dirsi per i tipi di approcci che occorre attuare per introdurre un cambiamento di mentalità aziendale. A tal proposito sono di scarso aiuto le attuali leggi sulla tematica di diritto del lavoro, soprattutto in riferimento alla legislazione italiana. Vi sono però diverse aziende che, con inventiva e coraggio, hanno analizzato le proprie risorse (economiche-finanziarie, umane, tecnologiche e temporali) e hanno elaborato strategie basate sulla valorizzazione degli elementi che avevano a disposizione per sviluppare un’evoluzione e un nuovo percorso relativi alla gestione del personale.

Non è questo il momento e il luogo per citare casi personali di intervento consulenziale su tali questioni. Quello su cui voglio porre l’attenzione è la necessità di integrare il vecchio modello delle cosiddette “pari opportunità”, volto a omologare e a appiattire le differenze, per adottare strategie e politiche con lo scopo di includere e valorizzare le molte e differenti potenzialità che ciascuna società possiede al proprio interno. Questo perché, in un mondo sempre più diversificato, la visione del futuro non sarà volta a rendere tutti uguali, ma a riconoscere l’originalità e unicità di ciascuno, imparando a gestire e valorizzare la conseguente complessità.