Margaret Thatcher soleva dire che non si trasforma un mulo in una zebra dipingendolo a strisce. Eppure c’è sempre qualcuno che ci prova, anche quando si tratta di pensioni. Per qualche ragione strana il calcolo contributivo è diventato, nel dibattito, il metro di misura dell’equità e il castigo meritato dei privilegi. Così è in atto un tentativo di applicare questo sistema a trattamenti erogati secondo regole diverse, anche a costo di inventarsi dei meccanismi cervellotici e perciò arbitrari. All’interno della maggioranza e del governo giallo-verde la materia è stata appaltata al M5S: così Fico e Di Maio perseguitano i cosiddetti privilegiati (ex parlamentari e pensionati d’oro), trattandoli come se fossero dei profittatori di regime, se non addirittura degli appartenenti a organizzazioni mafiose, con beni da sottoporre a sequestro.



A parte questa scorrettezza istituzionale (un ministro non può offendere dei cittadini sulla base di un suo discutibile giudizio morale), la perversione dei provvedimenti, in corso di elaborazione, non riguarda tanto il risultato (ovvero il taglio in modo retroattivo degli ex vitalizi e delle pensioni più elevate), ma il modo con cui ci si vuole arrivare. Vediamo perché, cominciando dalla fatwa del presidente Roberto Fico (fategli indossare un turbante bianco e una palandrana nera e sembrerà un ayatollah) nei riguardi degli ex deputati (visto che gli ex senatori per ora non sono coinvolti). Premetto che non ci sarebbe nulla di male a chiudere una disputa ormai divenuta persino noiosa (la gogna è uno spettacolo che prima o poi stanca e deprime chi vi assiste da troppo tempo) effettuando – in regime di autodichia – un taglio lineare sugli ex vitalizi in nome di una (discutibile) esigenza di solidarietà. Ciò che offende – l’intelligenza prima di tutto – è un altro aspetto: in nome di un inesistente (si veda in proposito quanto sostiene la migliore dottrina) principio di corrispettività tra la contribuzione versata e l’importo del trattamento, si mette in piedi un simulacro di ricalcolo a ritroso, totalmente virtuale.



Il fatto è che i contributi versati non ci sono, perché la regola prevedeva soltanto la ritenuta della quota a carico del parlamentare, mentre il vitalizio era erogato, al momento della sua maturazione, dall’amministrazione della Camera, la quale non era tenuta pertanto ad accantonare la quota spettante (sic!) al datore di lavoro. Nulla di strano: anche le amministrazioni statali si comportavano, in base alla legge, con le medesime regole nei confronti dei loro dipendenti fino al 1996, quando venne istituita una vera e propria gestione previdenziale presso l’Inpdap. Così, adesso, un montante contributivo – virtuale – occorre crearlo a tavolino, farlo nascere dal nulla. Ma c’è di più. Nel sistema contributivo il montante va moltiplicato per il coefficiente di trasformazione ragguagliato all’attesa di vita vigente all’età del pensionamento. In seguito ad alcune modifiche intervenute dopo la riforma Dini del 1995 che introdusse i coefficienti, il range previsto per i comuni cittadini va da 57 a 70 anni. Nel caso degli ex deputati – con il supporto dell’Inps – ne sono stati creati degli altri, precedenti e posteriori a quella fascia di età. In tal modo, a un ex deputato, ora ottantenne, si applicherà il coefficiente ricostruito in ragione dell’età in cui ha iniziato a percepire il vitalizio, considerando l’attesa di vita a quel momento. In poche parole, anche l’aspettativa di vita diventa virtuale: al nostro ottantenne diranno che la sua è di venticinque anni, perché tale era all’età in cui si ritirò.



Infine, tutto questo ambaradan è giustificato dall’esigenza di trattare gli ex parlamentari (per ora solo gli ex deputati) come i normali cittadini-lavoratori. La verità è che questi ultimi, in misura pressoché totale, sono andati in quiescenza con il metodo retributivo, salvo un pezzo di “misto” per quelli che si sono ritirati dal 1° gennaio 2012 (quando è entrata in vigore la riforma Fornero). Le prime pensioni totalmente contributive ci saranno intorno al 2035. In conclusione, su poco più di un migliaio di ex deputati si applicherà un sistema destinato soltanto a loro.

Veniamo adesso alle pensioni d’oro. Innanzitutto è incerto il livello di caratura dell’oro: a Di Maio è venuto il dubbio che 5mila euro netti mensili siano troppi e si è messo a parlare all’incirca di 4-5mila euro. Ma c’è una salvaguardia: la corrispondenza con i contributi versati. Ci risiamo. Il sistema di calcolo deve cambiare natura. Nel 1969 venne pensato per assicurare – a torto o a ragione – un trattamento pensionistico equipollente al reddito realizzato nell’ultimo periodo di vita attiva (ecco la formula virtuosa a cui si è arrivati: 40 anni di lavoro x 2% di rendimento annuo = 80% della retribuzione media rivalutata degli ultimi 10 anni). Anche in questo caso, allora, un montante contributivo che abbracci tutta la vita non esiste, tanto che, per lunghi periodi, non sono reperibili neppure i dati (nell’Inps solo dal 1974, nello Stato dal 1996).

Certo il sistema retributivo (che con criteri più rigorosi dei nostri si applica nella grande maggioranza degli ordinamenti degli altri Paesi) ha in sé una rendita di posizione nel senso che tende a “premiare” il punto di arrivo di una carriera generalmente in crescita. Ma sono previsti dei correttivi che abbattono il rendimento sui redditi più elevati e considerano solo 40 anni di attività anche se ne sono lavorati di più. Sulle pensioni retributive, poi, nel corso degli anni, specie su quelle più elevate, sono intervenute misure di solidarietà o di manomissione ripetuta della rivalutazione in base al costo della vita. In sostanza, hanno già avuto modo di scontare in parte i loro peccati.

Ecco allora la domanda: che senso ha andare alla ricerca, a posteriori, di un corrispettivo tra contributi e prestazioni che non era un requisito richiesto dal sistema vigente? Non sarebbe più opportuno procedere – come ha suggerito Alberto Brambilla il plenipotenziario della Lega in tema di previdenza – con un contributo di solidarietà modulato per diversi livelli di trattamento? Evitando così di infilarsi in una ricostruzione arbitraria, comunque rischiosa sul piano della legittimità costituzionale, per alcune migliaia di assegni.

È vero, la Consulta ha messo in guardia i governi dal ripercorrere in modo continuativo interventi che si giustificano soltanto per la loro straordinarietà. Ma un contributo che riversasse il risparmio conseguito in miglioramenti per i redditi più bassi forse potrebbe avere una diversa accoglienza da parte dei giudici delle leggi. A proposito, contrariamente a quanto sostiene Luigi Di Maio – che dovrebbe studiare di più e parlare di meno a vanvera – non è vero che le classi politiche dei decenni trascorsi, ora sul banco degli imputati, non si siano occupate delle pensioni più basse. L’istituto dell’integrazione al minimo (dei trattamenti a calcolo che non arrivano a quella soglia garantita) previsto nel sistema retributivo, come forma di solidarietà infragenerazionale, costa alla fiscalità generale la bellezza di 21 miliardi all’anno. Altro che reddito di cittadinanza!