Conoscendolo da alcune decine di anni, mi sono chiesto per quale motivo Giovanni Tria (una persona che stimo) abbia accettato di sottoscrivere una nota congiunta con Luigi Di Maio a proposito della tabella dello scandalo, la stessa che secondo il ministro grillino (persona che invece non stimo affatto) sarebbe stata introdotta nottetempo da una “manina” incaricata di “fare caciara” e di pugnalare alle spalle il decreto dignità, pietra miliare del cambiamento in tema di politiche del lavoro. La vicenda nel suo insieme è una colossale pagliacciata che, tuttavia, ha messo ancora una volta in evidenza lo spessore dei due capobastone del governo giallo-verde: tanto arroganti quanto ignoranti (nel senso letterale del termine, come participio presente del verbo ignorare). Poi, leggendo la nota una spiegazione me la sono data. Tria ha cercato di allontanare dal suo dicastero la furia vendicativa di Di Maio (non dimentichiamo che aveva proferito minacce di repulisti nel Dipartimento della Ragioneria generale e di uso dello spoil system).



Tria è riuscito a far rimangiare quelle accuse gravissime al ministro-ragazzino. È scritto, infatti nel documento congiunto, che nessuna accusa è stata mai formulata né contro il Mef, né contro la Ragioneria. Così Di Maio ha smentito se stesso, ottenendo in cambio l’assicurazione che sarà trovata la “manina” – estranea al Mef – che sta cercando di sabotare la legge-simbolo del M5s. Così si scarica tutta la responsabilità sull’Inps. Ma il bello deve ancora venire, perché Tria è stato capace di vendere la Fontana di Trevi al collega di governo. Nel comunicato si precisa, infatti, che “in merito alla relazione tecnica che accompagna il Dl Dignità, il ministro dell’Economia, Giovanni Tria, ritiene che le stime di fonte Inps sugli effetti delle disposizioni relative ai contratti di lavoro contenute nel decreto siano prive di basi scientifiche e in quanto tali discutibili”.



Per Di Maio avere un economista che evoca la mancanza di basi scientifiche per la tabella incriminata (nella quale viene prevista la perdita di 80mila posti di lavoro in un decennio – oltre ovviamente al minor gettito fiscale e contributivo – a causa della manomissione delle norme sui contratti a termine) non è sembrato vero. Il fatto è che Tria ha detto una cosa talmente ovvia da risultare persino banale. Quando mai una tabella inserita in una relazione tecnica allo scopo di prefigurare gli effetti finanziari di un provvedimento e quindi giustificarne le coperture ha avuto “base scientifica”? E chi tra quelli tenuti a formularla ha mai preteso che tale “base” ci fosse?



A Giggino Di Maio hanno appena finito di spiegare che esiste una procedura da seguire quando si avvia un processo legislativo: le norme di spesa devono avere una copertura e spetta alla Rgs mettervi in calce il “bollino” che attesta la regolarità dell’operazione. Ovviamente si resta nel campo delle ipotesi, perché nessuno è indovino. Si assumono dei riferimenti – per definizione “discutibili” – e su quella base vengono definiti i possibili effetti delle nuove norme. Nel caso che ha suscitato tante polemiche, l’Inps aveva ipotizzato che, alla luce dei nuovi vincoli previsti nel decreto a proposito dei contratti a termine, una quota pari al 10% non sarebbe stata rinnovata. È così difficile comprendere che le aziende piuttosto che assumere come impone Di Maio preferiranno non farlo?

È importante che il processo logico seguito nell’avanzare delle ipotesi sia reso noto, perché le relazioni tecniche che accompagnano i disegni di legge e i decreti rappresentino ai parlamentari chiamati a votarli un possibile quadro delle conseguenze nel loro insieme. Ed è essenziale che agli organi chiamati a svolgere questo compito sia assicurata, nell’interesse generale, un certa libertà di valutazione e soprattutto la responsabilità – in capo alla Rgs – di dire l’ultima parola – attraverso la “bollinatura” – dopo aver raccolto tutte le considerazioni degli uffici tecnici dei ministeri competenti e dell’Inps. Voler buttare tutto in politica è un errore gravissimo, tanto più che, nel caso della tabella, non vengono in causa le opinioni di Tito Boeri, ma degli uffici chiamati a svolgere quelle funzioni. Ecco perché questi ragazzotti sono degli energumeni che danno fiato alla bocca senza riflettere.

A osservare il testo del decreto – Di Maio lo avrà almeno letto? – ci si accorge subito che è contemplato un incremento di spesa, a cui dare copertura, nella norma sui contratti a termine [1]. Ciò significa che viene assunta, nell’articolato, prima ancora che in una tabella vagante nella relazione tecnica, l’ipotesi di un aggravio dei costi, che non ci sarebbe se, invece di diminuire, l’occupazione aumentasse.

È difficile immaginare che una “manina” sia arrivata al punto di inserire furtivamente persino una norma di un decreto legge del quale sono state scritte diverse versioni e che è passato per centinaia di mani, alla luce del sole, prima della sua approvazione da parte del Consiglio dei ministri . Se così stanno le cose, un ministro che accusa di fellonia importanti apparati delle istituzioni è solo un irresponsabile.

[1] Articolo 14 comma 2: Agli oneri derivanti dagli articoli 1 e 3, valutati in 17,2 milioni di euro per l’anno 2018, in 136,2 milioni di euro per l’anno 2019, in 67,10 milioni di euro per l’anno 2020, in 67,80 milioni di euro per l’anno 2021, in 68,5 milioni di euro per l’anno 2022, in 69,2 milioni di euro per l’anno 2023, in 69,8 milioni di euro per l’anno 2024, in 70,5 milioni di euro per l’anno 2025, in 71,2 milioni di euro per l’anno 2026, in 72 milioni di euro per l’anno 2027 e in 72,7 milioni di euro a decorrere dall’anno 2028, e dal comma 1 del presente articolo pari a 4,5 milioni per l’anno 2018, a 28,1 milioni di euro per l’anno 2020, di 68,9 milioni di euro per l’anno 2021, di 69,2 milioni di euro per l’anno 2022, di 69,5 milioni di euro per l’anno 2023, di 69,9 milioni di euro per l’anno 2024, di 70,3 milioni di euro per l’anno 2025, di 70,7 milioni di euro per l’anno 2026, di 71 milioni di euro per l’anno 2027 e 71,3 milioni di euro a decorrere 14/7/2018.

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