La scorsa settimana il ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico, Luigi Di Maio, ha presentato alle commissioni del Senato e della Camera le linee guida con cui conta di ispirare le politiche nei prossimi anni. Cercare nella relazione letta dal ministro una “visione” complessiva di come coniugare lavoro e sviluppo è un’impresa inutile. La relazione risente ancora molto delle promesse elettorali e manca completamente di un tentativo di lettura della situazione del Paese cui collegare le proposte di provvedimento.
Così per lo sviluppo dell’industria si mostra molta enfasi per le misure di lotta contro le contraffazioni e per la tutela del made in Italy, cosa meritoria, e quasi di sfuggita si annuncia di voler proseguire con il programma industria 4.0, visto che sta andando bene e piace alle associazioni industriali. Si toccano due tasti dolenti del nostro sistema come il cuneo fiscale e i debiti della Pubblica amministrazione, ma solo per promettere che sono allo studio provvedimenti per alleviare il peso di questi due ritardi storici del sistema pubblico che pesano sulle imprese. Dato il doppio incarico ci si poteva aspettare qualche riflessione e proposta sul rapporto tra produttività e incremento dell’occupazione e dei salari. Concetti evidentemente troppo complessi per il nostro doppio ministro, visto che non vi ha fatto nessun accenno.
Peccato, perché la ripresa occupazionale e un riequilibrio della distribuzione del reddito fra profitti e salari passano inevitabilmente attraverso le politiche di rilancio della produttività. Su quella delle imprese molto conterà la capacità contrattuale aziendale e territoriale. Ma interventi a sostegno degli investimenti e di riforma per aumentare la produttività del sistema Italia nel complesso (burocrazia, magistratura, semplificazioni) sono altrettanto determinanti.
Per quanto riguarda i temi più propriamente legati al ministero del Lavoro pesa la discussione già aperta sul “decreto dignità”. Dietro alla parola d’ordine “licenziamo il Jobs Act” non si sono presentate linee organiche per intervenire sul nuovo modello del mercato del lavoro. È difficile anche commentare l’efficacia degli interventi annunciati sui contratti a tempo determinato, la somministrazione e i voucher. Ogni giorno il provvedimento subisce cambiamenti che ne mutano anche in modo drastico gli effetti. Dal no assoluto ai voucher si arriva al sì ma solo in qualche settore economico e senza vendita dai tabaccai (cosa che rendeva facile l’uso per le famiglie e per chi non è assistito da commercialisti). Durata, numero delle proroghe e obbligo a indicare le motivazioni per i contratti a termine subiscono correzioni quotidiane. Su questi punti che vorrebbero incidere sulla precarietà del lavoro sarà possibile quindi esprimersi solo quando il testo uscirà dalle votazioni delle Camere.
I punti relativi alle pensioni hanno ripreso le promesse elettorali entrate a fare parte anche del contratto di governo. Ma parlare di pensione per chi ha Quota 100 o per chi ha almeno 41 anni di lavoro senza dire con quale valore pensionistico, e rinviando le coperture ai risparmi dai tagli alle pensioni d’oro, è indicare dei desiderata e non delle linee di programma attuabili nella legislatura.
L’attenzione sull’altro tema caldo, “il reddito di cittadinanza”, è stata più una definizione negativa che propositiva. Non sarà una misura assistenziale, nemmeno un sussidio di povertà e sopravvivenza. Sarà però una misura economica per sostenere crescita e occupazione. In cosa si differenzia da reddito di inclusione, Naspi e assegno di ricollocazione non si è capito.
Si è però ribadito che la struttura dei Centri per l’impiego sarà quella deputata a occuparsene. Saranno quindi i Cpi che dovranno valutare l’accesso al nuovo sostegno al reddito, gestire i percorsi di ricollocazione lavorativa per i percettori e gestire inoltre le sanzioni per chi non dovesse accettare offerte di lavoro congrue. Per poter fare ciò il ministro ha capito che i Cpi vanno rafforzati (promessi 2.000 nuovi assunti) e soprattutto riformati o formati per passare da compiti burocratici a compiti operativi. Vi è però il problema che i Cpi dipendono dalle Regioni e che ognuna ha in corso di applicazione modelli di funzionamento diversi. Con piglio e taglio doroteo, il neoministro, ha garantito che avvierà tavoli di confronto e di lavoro costante assieme a tutte le Regioni per potenziare l’accesso ai fondi europei con cui finanziare i nuovi servizi e senza mai prevaricare le competenze fra Stato e Regioni in materie concorrenti.
Non si è accennato alle nuove strutture nazionali Anpal e Anpal servizi, create proprio per coordinare e sostenere le politiche attive del lavoro introdotte negli ultimi anni. Un silenzio che può significare una volontà di tornare al passato. Da questo punto di vista vorrei rivolgere un appello. Certo la struttura Anpal richiede una messa a punto della governance. Pensata in funzione del nuovo disegno costituzionale poi bocciato al referendum, va ridisegnata per poter operare con le regioni. La cancellazione dell’agenzia e il ritorno a una direzione generale presso il ministero avrebbe però gravi contraccolpi. Si perderebbe quasi un anno per riformare uffici e pianta organica e si tornerebbe a burocratizzare il rapporto fra politiche e compiti dei Cpi. Un’agenzia di coordinamento, best practice e valutazione è invece, come in tutti i paesi europei, essenziale per diffondere le politiche attive e costruire reti con gli operatori privati.
Mi auguro che non prevalga un nuovo statalismo centralistico che, con la scusa di rispettare i poteri delle regioni, riporti nella burocrazia ministeriale i compiti che con più agilità si possono sviluppare in un’Anpal ridisegnata.