Precarietà, precarietà: è il nuovo grido d’allarme che riempie i talk show televisivi, le pagine dei giornali, i commenti della rete. Portato prepotentemente a galla con il decreto dignità, il termine può avere molti significati e infatti è variamente interpretato. E dalle diverse interpretazioni dipende anche la risposta al problema. Nella concezione del ministro Luigi Di Maio, nel suo ruolo di responsabile del lavoro, precarietà fa rima con contratti a tempo determinato. Da qui l’idea di ridurre la portata dei secondi per tentare di combattere la prima. Proposito lodevole, ma perseguito con strumenti che potrebbero portare al risultato opposto.



Mettere ostacoli agli imprenditori nella reiterazione del contratto nel presupposto che questi siano portati a confermarlo non è una previsione che promette di avverarsi. Al contrario, l’esperienza e il buon senso suggeriscono che di fronte a una maggiore incertezza il rimedio sta nel cambiare con più frequenza il lavoratore. Se l’intento è raggiungere una condizione favorevole alla stabilità dei rapporti, sarebbe più utile agevolare le conferme per i secondi dodici mesi (per un totale di 24) e incentivare poi la trasformazione del contratto da determinato in indeterminato. Qualsiasi elemento di rigidità gioca a sfavore del dipendente.



Dunque, per riannodare i fili del ragionamento, se la precarietà è misurata sulla velocità di ricambio dei rapporti, la strada imboccata dal ministro non può che condurre a un suo aumento. E, tuttavia, non dovrebbe essere questo il parametro con il quale valutare il fenomeno che risponde ad altri criteri. Innanzitutto, possiamo tranquillamente affermare che oggi siamo tutti precari. Precario è l’imprenditore che deve vedersela con le bizze del mercato e l’abilità dei competitori, precario il professionista che deve conquistarsi giorno dopo giorno la fiducia dei suoi clienti, precario perfino il lavoratore a tempo indeterminato.



È la struttura della società a essere cambiata profondamente e con essa la natura dei rapporti tra i soggetti che la animano. Certo, come sempre accade ci sarà sempre qualcuno meno precario degli altri (per esempio, i dipendenti della Pubblica amministrazione), ma nessuno può dormire sonni tranquilli. A meno che non fondi la sua sicurezza non sulla stabilità della relazione che si crea con il datore di lavoro, ma sulla sua preparazione. Sulla capacità di essere sempre pronto e capace di assolvere ai compiti che di volta in volta si troverà ad affrontare. Sul valore aggiunto che saprà dare alla sua prestazione intellettuale o manuale.

Sono lo studio, la competenza acquisita, la formazione continua a fare la differenza. A determinare la certezza che in questa o in quell’azienda, presso questo o quell’ufficio, la propria opera sarà sempre ricercata e premiata. Nessuno penserà mai di disfarsi di un collaboratore prezioso e valoroso. 

Certo, le condizioni a contorno devono mutare anch’esse. Finché un pezzo di carta attestante l’assunzione a tempo indeterminato sarà l’unico modo per accedere a un mutuo in banca e progettare una vita è chiaro che chi ne è privato si sente (o può sentirsi) precario. Ma questa è un’altra storia. Che merita di essere, questa sì, riscritta.

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