In attesa della conversione, il recente decreto legge n. 87 del 2018, noto come “decreto dignità”, interviene nuovamente sulla flessibilità del mercato del lavoro, introducendo nuovi limiti regolativi per l’utilizzo delle due principali tipologie negoziali atipiche (contratto a termine e somministrazione di lavoro a termine) e al contempo apportando una specifica modifica alla disciplina di tutela contro i licenziamenti.



Per il contratto a termine viene confermata la liberalizzazione – cioè l’assenza di una regola di giustificazione dell’apposizione del termine, impropriamente nota come a-causalità -, ma soltanto per il primo contratto di durata non superiore a dodici mesi, prorogabile altrettanto liberamente entro tale limite di durata. Un primo contratto di durata maggiore, che adesso non può comunque eccedere i ventiquattro mesi, deve essere invece giustificato, al pari della proroga che determini il superamento dei primi dodici mesi e di ogni proroga successiva, ammessa ora fino a quattro (e non più cinque) volte. I rinnovi devono essere sempre giustificati, anche se intervengono entro i primi dodici mesi, e sono inoltre soggetti a un incremento di 0,5 punti percentuali del contributo addizionale previsto per i rapporti di lavoro non a tempo indeterminato.



Questa giustificazione può essere integrata soltanto da due condizioni. La prima consiste in esigenze sostitutive o in altre temporanee e oggettive, però estranee all’attività ordinaria dell’impresa. Rispetto alla vecchia causale generale, è soprattutto quest’ultimo inciso normativo che riduce ampiamente l’ambito di utilizzo della fattispecie. La seconda condizione interessa invece l’ordinaria attività del datore di lavoro, ma consiste esclusivamente nelle intensificazioni temporanee e significative dell’attività, purché peraltro non programmabili. Il che sembra comunque consentire l’assunzione a termine per le cosiddette punte cicliche, in quanto prevedibili ma soggettivamente esterne e immodificabili dall’impresa.



Anche la durata massima consentita delle successioni contrattuali, cioè quelle inclusive di proroghe e rinnovi, è ridotta a ventiquattro mesi, qui però derogabili dall’autonomia collettiva. Con una repentina e opportuna modifica, le attività stagionali sono state escluse dai predetti limiti di giustificazione, restando confermata la loro sottrazione anche dal limite di durata complessiva. Nel complesso, il sistema del lavoro a termine risulta particolarmente irrigidito rispetto alle ultime riforme, collocandosi nella scia della legge Fornero per la liberalizzazione del primo contratto e segnando, invece, il ritorno a un risalente passato per la giustificazione dei contratti successivi.

Il decreto legge incide in modo ancor più profondo sul lavoro somministrato a termine, in quanto abbandona l’usuale schema del collegamento negoziale tra contratto commerciale e contratto di lavoro stipulato con l’agenzia. Infatti, mentre per la fornitura a termine di manodopera è confermata la liberalizzazione, senza limiti di durata e necessità di indicare alcuna causale, l’assunzione a tempo determinato da parte dell’agenzia è ora assoggettata a tutte le regole introdotte per il contratto a termine, a eccezione di quelle relative ai limiti percentuali e ai diritti di precedenza.

Pertanto per i contratti oltre i dodici mesi, come per qualsiasi rinnovo, l’agenzia dovrebbe rispettare i restrittivi limiti di giustificazione sopra ricordati. Il che, salvo eccezioni, risulta sostanzialmente impossibile, di fatto imponendo all’agenzia, che intenda proseguire il rapporto col medesimo lavoratore (almeno quando occorra somministrarlo alla stessa impresa), la sua assunzione a tempo indeterminato. A temperamento di tale soluzione, il sistema delle proroghe al primo contratto è invece ancora rimesso, per i casi e la durata, alle previsioni dell’autonomia collettiva. Occorre peraltro precisare che, mentre la durata e il numero delle proroghe sono esplicitati nell’attuale fonte collettiva di settore, non altrettanto può dirsi per i casi che consentono le proroghe.

L’intervento in materia di tutele crescenti contro i licenziamenti ingiustificati dei cosiddetti neo-assunti consiste nell’aumento, per le aziende che integrano il requisito dell’art. 18 St. lav., della misura minima e massima dell’indennità, che ora passa a sei e, rispettivamente, a trentasei mensilità. Poiché la quantificazione dipende esclusivamente dall’anzianità di servizio, l’impatto della modifica è, allo stato, abbastanza circoscritto, interessando soltanto l’elevazione della misura minima, senza stravolgimenti dell’impianto sanzionatorio. Il che vale a maggior ragione per le tutele accordate ai lavoratori dipendenti da imprese di dimensioni ridotte, per le quali opera il dimezzamento dell’indennità come ora aumentata, ma qui sempre col limite massimo di sei mensilità.

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