La questione dell’immigrazione è al centro dell’iniziativa del nuovo Governo e, di conseguenza, del dibattito politico. A ragion del vero il tema è affrontato con ambiguità che non vengono mai chiarite fino in fondo. Anche perché, per motivi spesso strumentali, si sovrappongono due aspetti di carattere strutturale che s’incarnano in situazioni differenti, nel senso che non può essere l’una a risolvere l’altra, ma, nello stesso tempo dell’altra non si può fare a meno. Cerchiamo a questo punto di far capire il ragionamento.
L’Europa deve misurarsi con processi migratori dall’emisfero del Sud verso quello del Nord che coinvolgono l’intero pianeta. Ciò pone seri problemi di governo e di accoglienza che è molto difficile affrontare e risolvere e che stanno dando vita a vere e proprie trasformazioni culturali, politiche, economiche e sociali nei Paesi sviluppati, destinatari delle migrazioni. Nello stesso tempo, questi Paesi presentano dei deficit demografici crescenti, dovuti all’invecchiamento della popolazione e al preoccupante declino della natalità, tali da ipotecare il loro futuro sia sul versante dell’offerta di lavoro, sia per quanto riguarda la tenuta dei sistemi di welfare che sono entrati a far parte integrante e irrinunciabile della vita quotidiana delle famiglie, garantendone il benessere e tutelandone i bisogni.
Dove sta, allora, il punto? Le società occidentali – soprattutto europee – hanno necessità di flussi costanti di lavoratori stranieri da integrare, ma questo contributo – indispensabile – non può venire, di per sé, da coloro che sbarcano sulle nostre coste per fuggire a qualche tragedia o per cercare una vita migliore. È vero che alle origini delle situazioni di presenza regolare vi sono spesso periodi più o meno lunghi di clandestinità legittimati negli anni scorsi attraverso le sanatorie. Ma la sostanza è un’altra: non si possono respingere i barconi dei “dannati della terra” senza trovare un’alternativa (che per ora è solo teorica); non si può, nel contempo, negare che vi sia bisogno di braccia, di intelligenze, di sudore e fatica, in grado di colmare gli effetti dirompenti di una demografia rovesciata rispetto alle naturali tendenze.
Ma i due fenomeni – propri di una modernità senza prospettive – non si integrano. Ne deriva così un vantaggio competitivo per le forze populiste e sovraniste, identitarie e tutto sommato un po’ razziste nei confronti di quelle più aperte all’accoglienza. Lo hanno dimostrato gli esiti delle elezioni, non solo in Italia. Le istanze “aperturiste” e solidariste finiscono per essere sopraffatte dalla brutalità degli avversari, i quali non si limitano a promettere di risolvere con la semplicità della chiusura dei porti e delle frontiere un problema irrisolvibile, ma finiscono per aver buon gioco su quella che è la loro posizione di fondo: negare, come processo normale e utile, l’esigenza di una società multietnica ovvero di un’immigrazione regolare e integrata che, in base al loro pregiudizio ideologico, sottrarrebbe invece lavoro agli italiani.
Non è di questa opinione il presidente dell’Inps, Tito Boeri, che nella presentazione del Rapporto annuale di quest’anno ha affermato che la storia “ci insegna che quando si pongono forti restrizioni all’immigrazione regolare, aumenta l’immigrazione clandestina e viceversa: in genere, a fronte di una riduzione del 10% dell’immigrazione regolare, quella illegale aumenta dal 3 al 5%”. Per dimostrare la validità di queste affermazioni, l’Inps ha effettuato due simulazioni: una prima, che si propone di stimare l’effetto di un eventuale prolungamento del “blocco” degli ingressi di nuovi immigrati sino al 2040, per un saldo negativo cumulato per le casse dell’istituto di 37 miliardi; una seconda, per dimostrare il divario che si è storicamente prodotto tra i contributi previdenziali versati dagli immigrati e il potenziale di prestazioni pensionistiche maturate dagli stessi contribuenti, con un ulteriore vantaggio di 36,5 miliardi per i conti dell’Inps.
A Boeri ha replicato il ministro dell’Interno accusandolo di vivere su Marte. Ovviamente senza prendersi la briga di replicare con argomenti un po’ più solidi. Come ha fatto, al contrario, in una nota, Natale Forlani, già direttore del dipartimento Immigrazione del ministero del Lavoro: “Francamente – ha scritto – non si comprende l’utilità di questo esercizio (dell’Inps, ndr). Sul versante opposto si potrebbe obiettare che se si realizzasse, nel medesimo periodo, l’obiettivo di portare gradualmente costante il tasso di occupazione dei lavoratori italiani verso la media Ue, circa 2mln di occupati in più, l’Istituto potrebbe introitare una cifra intorno ai 200 mld (tale stima andrebbe fatta simulando una crescita dell’occupazione italiana di poco superiore alle 300mila unità anno per i primi 6 anni, cifra ricavata dalla media della crescita registrata nei tre anni recenti e mantenendo successivamente il tasso di occupazione stabile al 68% negli anni successivi, con un valore medio pro capite dei versamenti superiore al 30% rispetto a quello degli immigrati)”.
Forlani contesta anche alcune stime della Banca d’Italia: “Questa tendenza a sopravvalutare i benefici dell’immigrazione – aggiunge – riscuote tanti proseliti. Ad esempio la Banca d’Italia che stima un potenziale di contribuenti fiscali attivi per anno superiore ai tre milioni utilizzando per l’analisi la categoria dei nati all’estero tra i quali, come noto, convivono centinaia di migliaia di italiani a tutti gli effetti. La cosa stride con l’evidenza dei dati Istat sugli occupati, poco più di 2,4 mln, che sulla base delle richiamate statistiche rilevate dall’Inps , percepiscono salari ben al di sotto della no tax area per i lavoratori domestici e agricoli (1/3 del totale) e di circa 14 ml euro per il resto dei lavoratori dipendenti privati. Sottratti a questi importi la quota deducibile dei contributi previdenziali e le detrazioni per carichi familiari (compresi i familiari rimasti nei paesi di origine secondo la legge italiana), la platea dei contribuenti attivi difficilmente potrebbe superare il milione di persone”.
Si tratta di argomenti da prendere in considerazione e sicuramente più sostenibili degli ukase di Salvini. Ci permettiamo, concludendo, una considerazione su aspetti che non vengono mai alla luce. Paradossalmente, per gli sfascisti di casa nostra (ci riferiamo ai nuovi padroni del vapore, prima che si vendano anche questo) i lavoratori stranieri vengono usati per “fare numero” quando si tratta di lamentare il declino del Paese. In sostanza, per lamentarci della nostra condizione, ci impadroniamo anche di quella degli stranieri. Nessuno ricorda, per esempio, che se i poveri ammontano a 5 milioni, di questi 1,6 milioni (su di una popolazione complessiva di 5 milioni) sono stranieri. In queste ore si parla molto di contratti a termine che da 2,2 milioni sono passati a 2,7 milioni negli anni della crisi (500mila riguardano lavoratori stranieri). E che dire dei poveri giovani italiani costretti a emigrare nonostante curricula di studio di grande rilievo? Il 70% degli stranieri svolge mansioni da operaio. Inoltre (secondo dati del ministero del Lavoro), il 47,5% degli stranieri extra Ue laureati in materie scientifiche considerate di pregio è impiegato in qualifiche low skill a fronte dell’1,8% degli italiani e del 21,9% dei lavoratori comunitari.