Facilissimo scomodare “posto fisso” Checco Zalone per commentare i risultati del sondaggio realizzato dalla Swg e commentato da Dario Di Vico sul Corriere della Sera, dal quale risulta un forte incremento dell’aspirazione a svolgere un lavoro nell’ambito del pubblico impiego. Ogni ironia è evidentemente ammessa, anche quella feroce appunto di Zalone, che col suo celebre film “Quo vado” ha, tuttavia messo alla gogna non solo una visione inaccettabile oggi più che mai del lavoro pubblico, ma anche la superficialità dannosa della pessima riforma delle province.



Meno giustificabili sono, però, le correlazioni che il sondaggio ha evidenziato tra l’orientamento politico e le aspirazioni lavorative. In estrema sintesi, il messaggio veicolato è che oltre il 50% di chi ha manifestato interesse per il “posto” nel pubblico impiego avrebbe votato per M5S. Da qui la conclusione tratta dal Di Vico, secondo la quale dal sondaggio si “vede una certa sintonia tra l’avanzata grillina e un ritorno verso lo statalismo protettivo. Si crede meno nel privato e nelle professioni che a questa cultura si rifanno e ci si rifugia nell’impiego garantito”.



Un’equazione che lascia pensare che i dipendenti pubblici siano tutti o in gran parte figli di una cultura di serie B, ostile al mercato, e in cerca dello “statalismo protettivo” e, forse, in fondo tutti un po’ “grillini”. È un po’ il messaggio nemmeno troppo subliminale che discende dall’equazione, davvero un po’ semplicistica. Come lo è quella, operata sui social network da moltissimi dichiarati elettori del M5S, secondo la quale tutti i dipendenti pubblici oggi in servizio debbono il posto di lavoro grazie alla spinta del sistema dei partiti succedutisi nelle varie maggioranze passate; sicché occorre un radicale spoil system, del quale peraltro la nuova maggioranza intende avvalersi in modo piuttosto diffuso, come dimostra il cambio ai vertici FS?



Forse leggere i dati senza buttarla necessariamente in politica o in slogan facili sarebbe più producente. Le persone coinvolte nel sondaggio potevano scegliere tra alcune opzioni, tra le quali, ad esempio, aspirare al lavoro di medico, notaio, avvocato, commercialista. Tutte professioni nobilissime, ma che richiedono una laurea e complesse abilitazioni. Nel Paese che denuncia una quantità di laureati molto bassa, desta troppo stupore che una minoranza di persone si senta in grado di aspirare a queste professioni, rispetto al lavoro subordinato nel settore pubblico? Ancora, il sondaggio consentiva di scegliere se fare il ricercatore universitario: professione oggettivamente dalle caratteristiche escludenti e selettive come le precedenti; oppure, se svolgere il ruolo di lavoratore in una cooperativa sociale/educativa. Ma, anche in questo caso, ben sapendo quali sono le retribuzioni medie delle coop, c’è da stupirsi che la prospettiva di un lavoro nel pubblico impiego sia maggiormente apprezzata?

Altre alternative erano: “programmatore/esperto informatico”; “esperto di comunicazione digitale/social marketing”; “creativo in una società di comunicazione/designer”; “bancario”. Attenzione: il sondaggio, dunque, non ha proposto l’alternativa tra “impiegato pubblico” e “impiegato nel privato”, ma ha sottoposto l’alternativa tra una condizione lavorativa estesissima (impiegati pubblici possono essere medici, infermieri, magistrati, militari, avvocati, ingegneri, architetti, docenti universitari, prefetti, poliziotti, vigili del fuoco, biologi, ricercatori, ambientalisti, urbanisti, geometri, assistenti sociali e via così) e specifici e limitati profili professionali: che risultato si aspettavano i sondaggisti e, soprattutto, i committenti del sondaggio?

Infine, le ultime alternative erano quella dell’insegnante (categoria che per quasi un milione di lavoratori rientra pienamente nel pubblico impiegato), di imprenditore, di commerciante/artigiano o di manager/dirigente d’impresa. Non desta alcuno scalpore che in una fase di crisi economica la prospettiva del mettersi in proprio risulti poco attrattiva: quanti tra coloro che hanno risposto avranno visto parenti, amici e conoscenti imprenditori o artigiani prostrati da una crisi economica senza fine?

Il lavoro pubblico rappresenta nell’immaginario quella stabilità economica (non necessariamente logistica, chiedere per credere ai docenti de La Buona scuola) sempre meno percepibile nel sistema privato. Ma appare una forzatura confrontare un intero sistema sintetizzato nel lemma “impiegato pubblico” con frazioni talora infinitesimali del lavoro subordinato o autonomo, orientando già dalle domande le risposte e poi stupirsi. E alludere, come il Di Vico nell’articolo a commento del sondaggio a un’eventualità da non scartare e cioè che “l’impiego pubblico «assolve» anche chi è poco motivato professionalmente”. Un’allusione, un’eventualità che però nasconde uno slogan facile, troppo facile, quale quello dei lavoratori pubblici tutti poco motivati.

Sarebbe il caso di uscire da queste logiche di contrapposizione tra parti della società oggettivamente prive di senso, se poste in questo modo. Le società anche più liberali, come quelle anglosassoni, o che meglio sanno unire produttività e rischio di impresa con gestione pubblica, come quelle nordeuropee, hanno comunque bisogno di uno Stato, che per funzionare si avvale di dipendenti pubblici.

Lo schema dipendente pubblico/poco motivato (e quindi fannullone) versus mondo privato non serve a niente. Serve, semmai, porsi il problema del perimetro che si intende dare allo Stato. Si potrebbe dall’oggi al domani ridurre di un terzo i dipendenti pubblici, privatizzando l’istruzione e apportare un’altra sforbiciata di circa 600.000 posti privatizzando totalmente la sanità. Entrerebbero, così, nel novero dei lavori occupati da chi non sarebbe poco motivato professionalmente moltissime opportunità e si ridurrebbero anche le tasse. Ma, poi, avrebbero tutti eguali possibilità di accesso a scuola e salute?

Non sarebbe il caso di parlare di pubblico impiego pensando finalmente ad ammodernare il funzionamento della macchina pubblica? Oppure, l’obiettivo consolatorio sarebbe quello di rendere tutti i 3 milioni di dipendenti (sui 22 milioni di occupati complessivamente) a tempo determinato? Ma, fatto questo, poi, la qualità dei servizi aumenta o diminuisce? Aspettiamo un sondaggio di mezza estate per capirlo.