In occasione di ogni tornata politica viene riagitato lo spettro di una riforma delle pensioni, che durante la campagna elettorale è un ottimo catalizzatore di consenso. Dalle confuse notizie che circolano, sembrerebbe che gli interventi in cantiere sulla previdenza siano sostanzialmente di due tipi, peraltro senza chiarezza sui tempi di realizzazione: il superamento della “Riforma Fornero” in vigore dal 2012 e l’intervento sulle cosiddette “pensioni d’oro”.
Come nel caso della “flat tax”, anche i mutamenti normativi in materia pensionistica meriterebbero un’attenta riflessione, vista la complessità e l’articolazione del sistema previdenziale italiano; ciò, direi, innanzitutto per motivi psicologici e sociali, prima ancora che economici, non essendo sufficiente proclamare la volontà di anticipare il ritiro in quiescenza per non scatenare il panico da incertezza sul futuro, che caratterizza sempre più marcatamente la nostra epoca a tutte le latitudini esistenziali, non solo professionali.
L’introduzione della “Quota 100”, cioè la somma di età anagrafica e anni di contribuzione prevista per la maturazione del requisito pensionistico, è uno dei cavalli di battaglia del Governo giallo-verde, come riportato nel contratto per il cambiamento: “Occorre provvedere all’abolizione degli squilibri del sistema previdenziale introdotti dalla riforma Fornero, stanziando 5 miliardi di euro per agevolare l’uscita dal mercato del lavoro delle categorie ad oggi escluse. Daremo subito la possibilità di uscire dal lavoro quando la somma dell’età e degli anni di contributi è almeno pari a 100, con l’obiettivo di consentire il raggiungimento dell’età pensionabile con 41 anni di anzianità contributiva […]“.
Secondo uno studio di Progetica (Società operante nel campo della consulenza finanziaria, assicurativa e previdenziale), ipotizzando una pensione di vecchiaia a 64 anni con 36 anni di contributi (incrementando sia la quota che l’età per la speranza di vita) e una pensione anticipata con 41 anni di contributi (senza incrementi), gli esiti sarebbero un anticipo tra 1,4 e 6 anni per chi inizia a lavorare presto (1,4 e 4,8 anni per le donne), mentre per i lavoratori assunti dall’1/01/1996, integralmente in regime contributivo, la situazione non subirebbe grosse variazioni rispetto alle regole attuali, favorendo in genere chi ha incominciato a lavorare prima, con il venir meno dell’adeguamento alla speranza di vita del requisito di pensione anticipata.
Il costo rappresenta una variabile significativa: ad avviso del Presidente dell’Inps, Boeri, ai aggirerebbe intorno a 15 miliardi, a fronte dei 5 prospettati nel contratto di Governo. La differenza mi induce a pensare che non si stia parlando della stessa cosa, visto il triplo dell’ammontare rispetto alle previsioni governative. Il motivo, in fondo, è piuttosto semplice e sottende un ragionamento analogo a quello della “flat tax”: se riduco la soglia di accesso al pensionamento, non posso concedere ulteriori agevolazioni, così come la riduzione della tassazione Irpef a una o due aliquote non è compatibile con le numerosissime agevolazioni fiscali esistenti. In altri termini, ciò comporterebbe la cancellazione dei correttivi apportati dal Governo precedente con l’introduzione dell’Ape social e delle facilitazioni all’accesso pensionistico per talune categorie di lavoratori usuranti, introdotta dall’ultima Legge di bilancio. Occorre, da un certo punto di vista, fare, per così dire, “tabula rasa” di tutte queste agevolazioni, con conseguenti scelte che, almeno sulle prime, possono suonare impopolari.
Il nodo principale da sciogliere, tuttavia, non è nei numeri. A mio avviso, il problema pensionistico non è assolutamente separabile dal problema della stabilità del lavoro, nel quadro complessivo dell’impatto delle nuove tecnologie, che costringono a sempre più precoci ricambi generazionali e dell’enorme crisi demografica: che senso ha oggi parlare di “stabilità del lavoro” quando è assai improbabile che un giovane possa contare su un lungo periodo di regolarità contributiva? Se si considerano, ad esempio, i dati sul numero delle posizioni assicurative Inps dei lavoratori raggruppati per classi di età anagrafica relativi al biennio 2016-2017, si registrano riduzioni in tutte le classi di età fino ai 49 anni (da -4,3% fino a 19 anni a -0,6% da 45 a 49 anni), pur essendo positivo il saldo tra entrate e uscite dei lavoratori (“effetto turnover”) per le classi di età fino ai 34 anni; tutto ciò in una situazione declino demografico senza precedenti: nel 2050 avremo 2,5 milioni di italiani in meno e gli “over 65”, oggi un quarto della popolazione, diventeranno più di un terzo (circa 20 milioni di persone, di cui oltre 4 milioni con più di 85 anni).
Anche per il taglio alle “pensioni d’oro” la strada non sembra così pianeggiante. Secondo i dati Inps al 31/12/2017, il numero di titolari di pensione di 3.000 e più euro al mese (per un reddito medio lordo annuo di 52.217 euro, che, per quanto buono, non è da paperoni) sono 1.113.757: si tratta, innanzitutto, di definire la soglia di importo sulla quale intervenire, avendo presente che più tale soglia è elevata, più si restringe la platea, con risparmi scarsamente significativi. Occorre poi decidere il metodo: agire con una specie di ricalcolo contributivo sulla parte della pensione determinata con il previgente e più generoso sistema retributivo (che non tiene conto dei contributi realmente versati, ma sostanzialmente della media retributiva degli ultimi 10 anni) potrebbe comportare tagli troppo pensanti su pensioni calcolate legittimamente secondo le regole vigenti nel tempo e già assoggettate in monte a tassazione Irpef; scegliere, invece, l’introduzione di un contributo di solidarietà non sarebbe stabile nel tempo, potendo essere applicato per periodi limitati e generalmente in condizioni eccezionali.
Entrambe le vie corrono il pericolo di essere impugnate per incostituzionalità. Tuttavia, l’idea di fondo, quella cioè di finanziare la spesa previdenziale attingendo all’interno del circuito previdenziale stesso per non generare nuova spesa, non sarebbe forse da buttare: era in fondo alla base della riforma proposta da Boeri qualche anno fa (“Non per cassa, ma per equità“), quella cioè di richiedere un contributo ai titolari di redditi pensionistici elevati (superiori a 5.000 euro lordi al mese), che godono di trattamenti pensionistici non del tutto coerenti con i contributi versati, sia pure conformemente alla legge.
Sono tutti aspetti su cui riflettere con serenità, senza accuse di parassitismo o vuota demagogia per cavalcare l’opinione pubblica con l’obiettivo di bilanciare i sondaggi di popolarità oggi, per ottenere maggiori consensi elettorali domani.