In poco più di un mese dal suo insediamento al super dicastero del lavoro e dello sviluppo economico, Luigi Di Maio ha dato segnali in controtendenza rispetto a ciò che ha animato le sue posizioni pre-governative, segnate da toni anti-industriali e anti-sindacali. Celebre la sua “se il sindacato non cambierà, lo riformeremo noi per legge”.
Al di là del fatto che il sindacato se non cambierà si estinguerà e che il suo cambiamento – oltre che essere auspicabile – è necessario (ma riformarlo per legge sarebbe la fine), gli avvenimenti di questo mese ci dicono che le vere intenzioni di Di Maio sono altre: è andato al Congresso della Uil, ha convocato un tavolo con le Confederazioni sul caso “Riders”, si sta dimostrando disposto a portare avanti il caso Ilva, è andato all’Assemblea nazionale della Cisl e, parlando di sindacato, ha detto: “Dobbiamo lavorare insieme, torniamo alla concertazione”.
Ciò è apertura importante nei confronti della Parti sociali, il super Ministro che pareva fare tutto da solo dice al mondo della rappresentanza sociale “lavoriamo insieme”. La cosa strana è, però, che lo dice dopo aver varato il suo primo provvedimento – il decreto dignità – attraverso lo strumento del decreto legge… quindi, forse, sarà per un’altra volta. Tuttavia, Di Maio pare convinto di attivare un rapporto virtuoso con le Parti sociali, anche perché gli è utile vista la sua poca esperienza al Welfare.
Considerata la sua acclarata intenzione di lavorare sul terreno del rafforzamento delle protezioni sociali – in vent’anni, è il primo Ministro del lavoro così deciso a intervenire non sulla flex ma sulla security – ci si aspetterebbe dai sindacati un contributo volto a rendere finalmente disegnate delle forme di tutela del lavoro che vadano nella direzione – nell’epoca contrassegnata non dall’inamovibilità del posto fisso ma dalla temporaneità del lavoro – di accompagnare e gestire i flussi occupazionali e le transizioni. Ciò significa accompagnare la trasformazione. Il decreto dignità, invece, ha semplicemente puntato a irrigidire le regole della flessibilità assumendo che ciò favorisce la stabilità, ovvero che così le aziende finiscono per stabilizzare le persone a tempo indeterminato. La strada è già stata in qualche modo sperimentata dalla riforma Fornero e sappiamo, invece, che ciò non fa che aumentare la precarietà e il lavoro nero.
È vero che il sindacato, come dicevamo, col decreto dignità non c’entra nulla. Ma è anche vero che le voci emerse dalle confederazioni sono tutt’altro che critiche nei confronti del provvedimento. Ciò significa che oggi sta tornando a prevalere un orientamento che ben conosciamo, che non guarda avanti ma indietro, che ritiene che la soluzione del lavoro precario non sia la crescita qualitativa e quantitativa dell’occupazione, ma il ritorno alle regole vecchie. Guardare avanti significa mettere a tema la questione non solo delle politiche attive del lavoro, ma anche degli investimenti, di come incentivarli, come rendere più attrattiva l’economia per gli investitori esteri. E non, soltanto, come punire gli abusi. Il decisore che si preoccupa solo di sanzionare non coglie la complessità della realtà.
Il sindacato nasce nell’800 per guidare le trasformazioni della società industriale. Siamo, in sostanza, dentro la quarta rivoluzione industriale, momento analogo a quello che ha caratterizzato la nascita della società contemporanea. Allora le Forze sociali sono state attori della trasformazione. Saranno capaci di tornare a esserlo ancora? È auspicabile che lo siano, lasciare troppo spazio al decisore politico è pratica foriera di errori. E di rischi.
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