Il 7 agosto il Senato ha definitivamente convertito in legge il d.l. 12 luglio 2017, n. 87, primo importante atto legislativo del nuovo Governo. Enfaticamente denominato “Decreto dignità”, il provvedimento comprende misure molto eterogenee, tra le quali un preminente rilievo sostanziale e mediatico hanno quelle sul precariato, in particolare le modifiche alla disciplina sia del contratto di lavoro a tempo determinato, sia della somministrazione di lavoro (artt. 1 e 2), finalizzate a ridurne gli spazi di utilizzabilità per i datori di lavoro.
A tal fine si prevede che il contratto a termine resti liberamente stipulabile per una durata non superiore a dodici mesi – invece dei trentasei precedenti -, ed entro tale limite, in caso di termine iniziale inferiore, sono consentite fino a quattro proroghe – invece di cinque -, con il solo consenso del lavoratore. Peraltro, il contratto può anche avere una durata superiore a dodici mesi, ma comunque non eccedente i ventiquattro, purché sussista una delle seguenti condizioni: a) esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività, ovvero esigenze di sostituzione di altri lavoratori; b) esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria.
Va notato come, eccettuata l’ipotesi sostitutiva, le altre riprendano la logica dell’abrogata legge n. 230/1962, che consentiva l’apposizione del termine solo in presenza di esigenze produttive non solo “temporanee”, ma anche “eccezionali”, come ora esplicita il riferimento a esigenze “estranee all’ordinaria attività” ovvero riferite a incrementi di questa, ma “significativi e non programmabili”.
Altresì, rispetto al testo del d.l., la modifica, nella lett. a), delle “esigenze sostitutive” in “esigenze di sostituzione”, potrebbe determinare ulteriori effetti restrittivi: la prima formula, presente nell’abrogato d.lgs. n. 381/2001, aveva legittimato l’apposizione del termine anche a situazioni (per esempio, per sostituire lavoratori in ferie) diverse dalle ipotesi di sospensione legale del rapporto di lavoro, alle quali, invece, è in genere riferita la “sostituzione”.
Tali casuali, inoltre, sono richieste sia per la proroga del contratto che determini il superamento del termine annuale, sia, a prescindere dalla durata iniziale, per ogni rinnovo dello stesso contratto. A ulteriore disincentivo, i rinnovi sono resi costosi con l’applicazione del contributo addizionale di cui all’art. 2, co. 28, l. n. 92/2012, “aumentato di 0,5 punti percentuali in occasione di ciascun rinnovo del contratto a tempo determinato, anche in regime di somministrazione”.
Quanto a quest’ultima, la stretta è realizzata dall’art. 2 della legge di conversione, rendendo applicabile in via diretta al contratto a tempo determinato stipulato tra l’agenzia e il lavoratore la disciplina del contratto a termine, con la sola eccezione degli artt. 21, co. 2 (intervalli temporali tra una successione di contratti), 23 (limite percentuale di contratti stipulabili) e 24 (diritti di precedenza), d.lgs. n. 81/2015. Cade, perciò, il debole filtro della “compatibilità”, in precedenza previsto per l’estensione di quella disciplina, mentre vengono resi applicabili i limiti temporali e sul numero di proroghe già richiamati, di cui agli artt. 19 e 21, d.lgs. n. 81/2015.
Peraltro, lo stesso art. 2, al co. 1 ter, chiarisce che le causali di cui all’art. 19, co. 1, “si applicano esclusivamente all’utilizzatore”. Sembra così scongiurato il rischio di dissociazione tra i due contratti, di somministrazione e di lavoro, entrambi a termine, già prospettato su queste pagine. Ciò non determina anche il superamento del termine annuale per l’assunzione del lavoratore: l’agenzia resta soggetta a tale limite, ma potrà, laddove l’impresa utilizzatrice sia nelle condizioni (causali) richieste, prorogare o rinnovare fino a due anni il contratto con lo stesso lavoratore. Tuttavia, fermo restando i dodici mesi iniziali, un elemento di incertezza quanto alla durata del contratto a termine è dato dal regime delle proroghe, l’art. 34, co. 2, d.lgs. n. 81/2015 continuando a prevedere il rinvio al contratto collettivo applicato dal somministratore per l’individuazione dei casi e della durata, a fronte della disciplina dell’art. 21, che richiede le causali superati i dodici mesi.
Rispetto all’imposizione di questi vincoli, magra compensazione è l’incremento, dal 20% al 30% del numero di lavoratori a tempo indeterminato in forza all’utilizzatrice, della percentuale di lavoratori assumibili con contratto a tempo determinato ovvero con contratto di somministrazione a tempo determinato, fremo restando, per i primi il limite del 20%.
Nel complesso, è palese l’intenzione governativa di contenere l’uso del contratto a termine nel limite annuale, rendendo residuale l’ipotesi di durate più lunghe. Determinante in tal senso è il ritorno alle causali per legittimare l’apposizione del termine. Al riguardo, per un verso, non è stata tenuta in alcuna considerazione l’esperienza negativa del d.lgs. n. 381/2001: le “ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo e sostitutivo”, che giustificavano l’apposizione del termine al contratto, invece di favorirne l’utilizzo, hanno originato un enorme contenzioso giudiziario e si sono rivelate fonte di incertezza giuridica. Per un altro, il ritorno esplicito alla logica “residuale” della legge del 1962, peraltro sempre presente nella giurisprudenza, cancella con un colpo di spugna cinquanta anni di cambiamenti epocali, sociali, tecnologici e produttivi. Mentre l’assimilazione tra contratto a termine e somministrazione chiude il cerchio, anche qui dimenticando la diversità tra le due fattispecie, confermata dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia.
Al fondo, c’è una miopia culturale, comune non solo ai nuovi legislatori: l’idea che sia la legge a determinare la crescita dell’occupazione e, in particolare, che alla stretta sui contratti a termine consegua di necessità l’aumento delle assunzioni a tempo indeterminato. È un’idea smentita da anni di riforme del lavoro e dalle trasformazioni dei cicli e dei sistemi produttivi e qualche dubbio deve averlo avuto anche il Parlamento, che ha previsto un incentivo contributivo per le nuove assunzioni.
Ma non è facile aprire un dibattito costruttivo quando le disposizioni tutelano “a priori” la “dignità” della persona, quasi che a metterle in dubbio si attenti a quel supremo valore costituzionale.