Attualmente in discussione alla Camera, il Decreto Dignità approvato dal Consiglio dei ministri il 2 luglio scorso, passerà all’esame del Senato tra qualche giorno, per essere convertito in legge entro l’11 settembre, pena decadenza. Fin dal suo annuncio il decreto è stato oggetto di forti critiche provenienti da più parti, in particolare dalle Agenzie per il lavoro contrarie all’equiparazione della disciplina del lavoro somministrato a quella del rapporto a tempo determinato.
In prima battuta il provvedimento sembrava quindi concretizzarsi come un attacco frontale alle agenzie, messo in campo per escluderle dal mercato in quanto considerate – per semplice incompetenza condita da qualche ideologia – alla stregua di caporali sfruttatori del lavoro altrui. Dopo un successivo approfondimento, dal quale si è reso evidente che il lavoro somministrato è doppiamente tutelato, il Governo ha ingranato la marcia indietro: dalla prima bozza di decreto è stata eliminata la norma che cancellava la somministrazione di lavoro a tempo indeterminato e che, conseguentemente, buttava a mare 40mila posti di lavoro. È rimasta invece invariata l’equiparazione del lavoro somministrato a quello a tempo determinato.
La discussione si è rianimata nella sede referente delle commissioni riunite Finanze e Lavoro pubblico e privato della Camera, durante la quale si è assistito a una levata di scudi pluriforme a favore della permanenza della distinzione delle due discipline, valga per tutti quella di Guglielmo Epifani (Leu), ex Segretario generale della Cgil, dal 2002 al 2010, che negli anni passati si era battuto proprio contro il lavoro interinale e la somministrazione. Una difesa del lavoro somministrato che potrebbe portare all’abrogazione dell’art. 2 del decreto, relativo a quella equiparazione, ma che probabilmente porterà soltanto a limitare i danni: innanzitutto non obbligando l’Agenzia per il lavoro ad avere motivi per l’assunzione a termine, ma che questi siano riferiti all’azienda utilizzatrice, in secondo luogo escludendo la necessità del cosiddetto stop and go per i somministrati.
A oggi è invece invariata la misura che prevede l’aumento del costo, a carico del datore di lavoro, anche del lavoro somministrato rinnovato, coerentemente con l’idea mainstream che la flessibilità debba costare di più perché ha un maggior valore per l’impresa. Al di là della condivisibilità o meno di questa impostazione, la domanda che sorge spontanea è: perché il costo maggiore non si trasforma in un maggior guadagno per il lavoratore? Vero è che l’aggravio economico per l’impresa è oggi determinato da un aumento del contributo previdenziale, a carico del datore di lavoro e a favore del futuro trattamento pensionistico del lavoratore, ma è altresì noto che gli interventi legislativi in materia di welfare aziendale hanno favorito la riduzione di parte del costo del lavoro e prodotto un aumento della disponibilità economico-finanziaria dei lavoratori, pertanto non si comprende perché non si intervenga per incrementare le retribuzioni dei lavoratori a termine, compensando così la loro affermata precarietà.
La sensazione diffusa è che il governo attuale non abbia, o almeno non ancora, una visione innovativa delle tematiche del lavoro e che manifesti in qualche modo delle resistenze a prendere in considerazione le valutazioni degli operatori privati del mercato del lavoro, per i quali i lavoratori rappresentano la principale risorsa e il valore più prezioso, nonché occupabilità e occupazione una ricchezza per il Paese.