Secondo indiscrezioni giornalistiche, pare che neppure l’Avvocatura dello Stato abbia trovato motivi di illegittimità nel bando di gara a seguito del quale l’Ilva è stata assegnata all’Arcelor-Mittal. E sia quindi disposta a reggere il moccolo al Governo. Si avvicina quindi il momento di chiudere il negoziato e dare inizio a un’operazione in grado di salvare dalla chiusura tombale quella che fu la più grande acciaieria d’Europa. Se avessero un barlume di intelletto, spetterebbe ai sindacati imprimere una svolta a una trattativa che il Governo si ostina a incanalare su di un binario morto. Immagino che i dirigenti più consapevoli si siano amaramente pentiti di non aver approfittato, fino all’ultimo minuto, della mediazione di Carlo Calenda e Teresa Bellanova e di averli praticamente delegittimati in quanto componenti di un Governo in regime di ordinaria amministrazione, dopo le elezioni del 4 marzo. Confidare nell’iniziativa del Governo giallo-verde – nella speranza di lucrare qualche posto di lavoro in più – è stato un errore imperdonabile.



La vertenza è finita nelle mani di un ministro che non è solamente incapace, ma un personaggio cinico disposto a mettere sul lastrico decine di migliaia di famiglie al solo scopo di implementare il consenso per il movimento di cui è capo politico. A Luigi Di Maio, invece, i sindacati hanno consegnato gratis un piano B. Se non dovesse riuscire il discredito irresponsabile gettato – senza alcun riscontro oggettivo – sulla gara e sull’assegnazione alla società multinazionale che l’ha vinta, “o’ ministro” ha sempre una carta di riserva: alzare il prezzo nella trattativa sugli organici, facendosi paladino delle richieste dei sindacati, quando si dovrebbe chiedere loro per quale sortilegio uno stabilimento ferito a morte potrebbe rinascere in assenza di un progetto che preveda, purtroppo, anche degli esuberi. Al contrario, affidare le sorti dell’Ilva all’attuale Governo, ha significato mettere lo stabilimento (e le persone che ci lavorano) nelle mani del boia.



Perché Di Maio considera più vantaggioso sul piano politico denunciare un broglio nella gara (ancorchè inesistente o riconducibile a un aspetto trascurabile, come ha certificato l’Anac), anche a costo di mandare a monte un piano di salvezza dell’attività produttiva e di risanamento ambientale, piuttosto che patrocinare un’intesa che si porti appresso dei costi sul piano sociale. Che la strategia del M5S (di cui è succube la Lega) sia quella di gettare delle teste mozzate alla plebe lo abbiamo visto anche nella tragedia che ha colpito la città di Genova con il crollo del Ponte Morandi. Il Trio Capinera che è appollaito al vertice dell’esecutivo ha impiegato pochi minuti ad appioppare la responsabilità di quell’evento alla società Autostrade per l’Italia e alla famiglia Benetton, in quanto maggiore azionista di Atlantia. Certo, a usare il linguaggio delle Procure, si tratta del maggiore indiziato, ma in uno Stato di diritto, non è un ex ufficiale dei Carabinieri approdato al ministero delle Infrastrutture (noto soprattutto per i suoi boccoli) a fare tutto da sé e a denunciare, un minuto dopo il verificarsi della sciagura, le dinamiche dell’evento e le effettive responsabilità.



Non solo le vittime e gli abitanti di Genova, ma tutti gli italiani hanno il sacrosanto diritto di conoscere la verità e di vedere applicare le opportune sanzioni ai colpevoli: ma non ai primi che capitano. Soprattutto, a quanti servono per realizzare un preciso, ma sciagurato, disegno politico: riportare lo Stato nell’economia, screditando i soggetti privati, come lupi mannari del profitto a ogni costo. Eppure, assistendo ai funerali e agli applausi riservati ai fratelli De Rege, vien fatto di credere che la gente non vuole sapere la verità, ma si accontenta di veder rotolare delle teste. Preferisce l’uso politico di una vendetta barbaricina, piuttosto che l’essere in grado di riuscire, in tempi brevi, a ripristinare un assetto sostenibile e accettabile del sistema delle infrastrutture, come succederebbe con la revoca della concessione e l’avvio di un ingarbugliato procedimento giudiziario.

Purtroppo il commento più azzeccato sui fatti (gli applausi, i selfie, i fischi e il loro destinatari) di quella giornata lo ha rilasciato Stefano Esposito, ex senatore Pd: «C’è una parte consistente del Paese che vuole sentirsi dire le cose che dicono Salvini e Di Maio e non interessa loro se le cose sono giuste o no». Il problema dell’Italia è proprio questo, purtroppo.

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