Perché il Sud, da decenni oggetto di analisi politiche, sociologiche ed economiche che hanno riempito anche le biblioteche degli atenei italiani, non riesce a uscire fuori dalla sua crisi? È con questa domanda che l’imprenditore Antonio Saladino ha introdotto il dibattito svoltosi ieri al Meeting di Rimini sul tema “Sud, giovani e lavoro”, immaginando che alla base ci sia un problema di tipo educativo e di costruzione del soggetto, più che una carenza di progetti.



Per Paolo Maninchedda, già assessore regionale in Sardegna, i giovani del Sud intuiscono che lo Stato ha abbandonato il confine meridionale, concentrando le risorse e le opportunità sui confini del Nord, dove si sono combattute le grandi guerre. Maninchedda, con il puntuale supporto di dati documentati, ha dimostrato questa sua tesi. “La questione meridionale, la questione sarda e la questione giovanile – ha sostenuto Maninchedda – sono questioni che riguardano l’origine, la struttura e lo sviluppo dello Stato italiano la struttura dei poteri che esso esercita e che le egemonie esercitano sullo Stato”. Il mancato sviluppo del Sud non è una colpa del Sud: c’è un’egemonia culturale che descrive il ritardo del Sud sotto il titolo della colpa. Non c’è libertà se non c’è responsabilità e non c’è responsabilità se non c’è l’autorità, se non si può esercitare la capacità di risolvere i problemi. Il Pil pro capite (2017) è pari a 34mila euro al Nord e a 18,2 al Sud. Il sistema fiscale, ha rimarcato il professore sardo, tratta queste due realtà così diverse allo stesso modo, con due conseguenze opposte: al Nord redistribuisce ricchezza mentre al Sud impedisce l’accumulo di capitale. 



Per quanto riguarda il rapporto tra Pil del Nord e del Sud, partiti da un livello simile nel 1861, si è creato un divario che è progressivamente cresciuto: il Pil del Nord è cresciuto di 15 volte, al Sud di 9. “La mia tesi – ha spiegato Maninchedda – è che in mezzo ci sia un’egemonia politica dei territori forti che hanno egemonizzato lo Stato. C’è una correlazione tra la maggiore forza politica del Nord e il differenziale economico tra Nord e Sud”. La ricchezza prodotta al Sud anche da grandi aziende pubbliche (Anas, Enel, ecc.) è trasferita nei bilanci di queste aziende senza alcuna ricaduta significativa per i territori in cui viene prodotta.



Nello Musumeci, Presidente della Regione Siciliana, è stato invitato dal moderatore a rispondere sul ruolo che il Sud deve svolgere per ripensarsi al centro del Mediterraneo. Per Musumeci, Sicilia e Mezzogiorno d’Italia sono il naturale pontile dell’Europa verso un altro mondo, difficile, povero come il bacino euro-africo-asiatico. “Noi dobbiamo superare la logica secondo cui l’Europa si ferma in Toscana o al massimo a Roma. Determinare un polo autonomo di sviluppo che guardi ai mercati del Sud che sono gli unici con prospettive di espansione nei prossimi 20 anni, con tutti i loro problemi di tolleranza e convivenza. Dobbiamo capire se siamo nelle condizioni di poter essere autonomi rispetto a un Nord che oltre a essere ricco appare anche superbo. Siamo un tubo digerente del Nord, siamo un grande bacino di consumatori, se non ci fosse questo tubo digerente, l’80% delle aziende del Nord dovrebbe chiudere”.

Non mancano le colpe della classe dirigente del Sud che ha vissuto su un consenso drogato dal bisogno. La classe dirigente ha cercato nel Sud un consenso drogato. “Lucrezia Reichlin, poco dopo la mia elezione, ha scritto ‘il nuovo presidente deve affrontare una sfida enorme. La prima sfida è impedire l’emorragia di braccia e di fosforo’. Nel 2015-2016 la Sicilia ha perso 93.000 residenti, di cui il 30% giovani. Su 5 milioni di residenti nell’isola gli occupati sono solo 1.350.000. Il Prodotto interno lordo in Sicilia è 17,1 mila euro. Il 30% di famiglie siciliane vive sotto la soglia di povertà. In queste condizioni, qualunque prospettiva di governo deve partire da questa realtà. La prima diseconomia è la carenza di infrastrutture. Gli stranieri non investono al Sud perché non ci sono collegamenti. Le politiche di sviluppo sono state tutte fallimentari, come la cocciuta idea dell’industrializzazione, la politica della Cassa del Mezzogiorno, è fallita, mentre sono stati trascurati agricoltura e turismo”.

Servono legalità e infrastrutture, secondo Musumeci, e non ci sono più banche meridionali, abbiamo solo banche del Nord. E servono investimenti pubblici. La burocrazia è nemica dello sviluppo: ha creato occupazione senza lavoro. E c’è il problema dell’investimento pubblico: nel 2010-2017 c’è stata una riduzione di 4,7 miliardi di euro, la ferrovia veloce si ferma in Campania e non c’è un hub portuale. Per avere investimenti privati occorre essere allettanti: da sempre il capitale va dove il lavoro costa di meno; costo del lavoro e fisco sono determinati. “In Sicilia – ha concluso Musumeci – dobbiamo spendere 6 miliardi che rischiamo di restituire all’Ue perché negli uffici non abbiamo gente capace di scrivere i progetti, nonostante 14.000 dipendenti ma quasi tutti di fascia bassa”.

Saladino ha quindi introdotto mons. Filippo Santoro, ricordando una frase di don Giussani: “La soluzione dei problemi che la vita pone ogni giorno non avviene direttamente affrontando i problemi, ma approfondendo la natura del soggetto che li affronta”. L’arcivescovo di Taranto ha invitato ad allargare l’orizzonte, non limitandosi all’analisi. Citando un’altra frase di Giussani, che è il tema del Meeting di quest’anno – “Le forze che muovono la storia sono le stesse che rendono l’uomo felice” -, Santoro ha rimarcato come ci sia un punto che viene prima dell’economia e della politica: la questione educativa; per questo è necessario comunicare una speranza che risvegli l’umano; la vicinanza ai problemi della gente non può essere data dalla politica, ma è necessario un punto nuovo, lo sguardo che ho su di me è quello che nella storia è stato possibile con l’Incarnazione. Qualcosa che risvegli è possibile solo partendo da un’esperienza. 

“Un lavoro degno – ha proseguito Santoro – rende l’uomo felice e perché questo si realizzi è necessario un punto che cammini, occorre un risveglio del protagonismo del nostro popolo. Anche in una realtà come quella di Taranto dove 20 mila persone rischiano di perdere il lavoro all’Ilva o nell’indotto. Non siamo nel ricatto lavoro/salute: è come se avessi due figli, non puoi ammazzarne uno per risolvere il problema. Si pone il problema di un’innovazione tecnologica, com’è stata possibile in altri luoghi.

Ci vuole dimensione educativa ed educazione sociale. La dimensione educativa è provocata dai volti, dal tener presente i volti delle persone.Non bisogna lasciare cadere le provocazioni che ci vengono dalla realtà, come l’ultimo ragazzo che è morto all’Ilva, Angelo Fuggiano un addetto dell’indotto, o i 16 braccianti morti nel foggiano in due giorni. È un lavoro degno che rende l’uomo felice, che fa risvegliare il protagonismo dell’uomo e del popolo. 

Secondo Saladino, mons. Santoro ha dimostrato come generare capitale umano e quindi capitale sociale fa fare un passo indietro lo Stato. Al Sud, i soli interventi esterni, sia pur necessari, non bastano e diventano perfino oppressivi se non c’è, come sosteneva negli anni ’50 Giorgio Ceriani Sebregondi, una volontà locale allo sviluppo.

Tutti i relatori hanno convenuto riguardo alla grande emergenza educativa che c’è nel Sud dove è evidente che la prima cosa da fare è educare i giovani alla realtà che li circonda e che per rendere ciò possibile occorre un lavoro paziente e duro. Occorre cioè un restauro dell’umano: come diceva San Benedetto “dopo le invasioni barbariche è difficile educare perché questo è un rischio e nessuno vuole correre questo rischio”. Ma solo così si potrà attuare una rivoluzione copernicana, in cui il Sud potrà sperare di diventare il centro del Mediterraneo.

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