Anche sul tema spinoso dei vitalizi degli ex parlamentari il diavolo si nasconde nei dettagli. La presidente del Senato Elisabetta Casellati aveva interpellato il Consiglio di Stato per avere un parere della massima autorità della giustizia amministrativa sulla legittimità di un ricalcolo retroattivo dei vitalizi (già colpiti dalla fatwa di Roberto Fico). Il Consiglio ha istituito una commissione speciale e ha formulato un parere su tutti i quesiti posti da Palazzo Madama e relativi: a) alla fonte normativa idonea all’adozione del provvedimento; b) ai profili di legittimità costituzionale; c) all’eventuale responsabilità nella quale potrebbero eventualmente incorrere i singoli componenti del Consiglio di Presidenza del Senato che contribuissero ad approvare un provvedimento – diverso dalla legge – successivamente dichiarato illegittimo. 



Prima di sintetizzare le risposte è bene richiamare un passaggio del testo dove è visibile, per un occhio attento, il nascondiglio della coda del demonio: “In via preliminare occorre delimitare l’ambito dell’intervento consultivo di questo Consiglio di Stato. Il Senato non ha trasmesso un proprio schema di disciplina, sicché l’avviso di questa Commissione speciale non potrà che tratteggiare il quadro giuridico-costituzionale che possa fungere da riferimento all’intervento prospettato”. In parole povere, il Consiglio di Stato ha rinviato la palla nel campo del Consiglio di Presidenza del Senato. “Non essendovi un testo operativo – è sembrato dire – non possiamo che ragionare sul dover essere anziché sull’essere”. Ovvero la rogna è vostra, grattatevela da soli. 



Così, chiariti con ampie rassicurazioni i quesiti riguardanti la possibilità di avvalersi del regolamento (in regime di autodichia) quale fonte normativa e l’inesistenza di un’eventuale responsabilità dei componenti del Consiglio di Presidenza del Senato nel caso che venga successivamente accertata l’illegittimità di una delibera riguardante i vitalizi, il parere si è diffuso sui profili di legittimità costituzionale, riferendosi a quanto aveva già stabilito la giurisprudenza della Consulta e cioè che “nel nostro sistema costituzionale non sia interdetto al legislatore di emanare disposizioni le quali modifichino sfavorevolmente la disciplina dei rapporti di durata, anche se il loro oggetto sia costituito da diritti soggettivi perfetti, salvo, qualora si tratti di disposizioni retroattive, il limite costituzionale della materia penale”. 



Tuttavia, “dette disposizioni […] al pari di qualsiasi precetto legislativo, non possono trasmodare in un regolamento irrazionale e arbitrariamente incidere sulle situazioni sostanziali poste in essere da leggi precedenti, frustrando così anche l’affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica […]”. La Corte Costituzionale – sottolinea poi il Consiglio di Stato – ha ribadito che la scelta legislativa deve essere assistita da una “causa normativa adeguata” ovvero giustificata da una “inderogabile esigenza“. Assume carattere dirimente – aggiunge – anche la cosiddetta base affidante – ovvero la consistenza giuridica dell’affidamento – invocata dai soggetti incisi dal mutamento normativo. 

In breve se è ammissibile l’an, il giudizio di legittimità si sposta sul quomodo. E qui casca l’asino. Perché è senz’altro sostenibile che la delibera Fico e un’altra simile adottata dal Senato sarebbero sanzionabili di illegittimità perché non conformi a requisiti richiesti: la ragionevolezza (ha un senso costruire un meccanismo di calcolo in cui gli addendi sono virtuali?); la tutela dell’affidamento incolposo dei soggetti colpiti nella loro situazione giuridica (peraltro conforme alle norme vigenti), a cui si aggiungono l’arbitrarietà delle misure e la totale assenza di elementi di straordinarietà e di emergenza tali da giustificare (a meno che non sia necessario esibire qualche testa mozzata sulle picche) la violazione di “diritti soggettivi perfetti”. 

A questi vizi si potrebbe aggiungere che per gli ex deputati si è costruito – in nome dell’uguaglianza con tutti i cittadini – un sistema contorto valevole solo per chi ha rappresentato la nazione per un certo periodo della vita. Il problema però è un altro. Chi è tenuto ad accertare la legittimità o meno – nei suoi contenuti – della fatwa vendicativa approvata dall’Ufficio di Presidenza della Camera? Dopo che il parere era stato reso noto, tutte le parti in causa (gli esponenti “gialli” della maggioranza, da un lato, e l’associazione degli ex parlamentari, dall’altro) hanno cantato vittoria. Ma per ora ad avere la meglio sono i primi, i quali dispongono di un testo il quale – per quanto vergognoso e infame – a gennaio entrerà in vigore. Le vittime di questo misfatto dovranno trovare un giudice che dia loro ragione. E questo è un cammino impervio, che inizierà con il ricorso agli organi di giurisdizione interna (riusciranno a garantire quella terziarietà che è richiesta a chi deve giudicare?) e che dovrebbe finire alla Consulta (ammesso e non concesso che i ricorsi riescano ad arrivarci prima che anche i giudici delle leggi siano armonizzati al nuovo regime).