ACCORDO ILVA. Era il giugno del 2010, quando i lavoratori si pronunciavano sullo storico contratto di Pomigliano: il 63% votava a favore, il 37% contro. Gli accordi Fiat segnavano in Italia l’impatto più avanzato della globalizzazione con le relazioni industriali. Non c’è bisogno di ricordare quale fu la pesante situazione dei mesi che accompagnarono quella vertenza: sindacato diviso, politica e media divisi e in gran parte contro Marchionne e chi con lui firmava gli accordi; e stendiamo un velo pietoso sull’accademia.



La vicenda Ilva è senza dubbio la vertenza più importante che è seguita al caso Fiat, anche per l’effetto che ha avuto sull’opinione pubblica. Naturalmente si tratta di due vicende caratterizzate da profonde e differenti specificità: non si può parlare di Ilva, ad esempio, senza considerare il dramma che ha vissuto e vive la città di Taranto, aspetto totalmente assente nel caso Fiat, la cui patologia era tutta contrattuale e legata ai rapporti di forza interni al sindacato.



Al di là del buon esito della vicenda Ilva, nessuno potrà mai restituire ai tarantini ciò che hanno perso in questi anni. Ciò premesso, la soluzione del caso segna una tappa importantissima per la nostra industria e l’esito del referendum – accordi votati con percentuali che si attestano mediamente attorno al 93% – ci autorizza a fare una riflessione sulla rappresentanza del lavoro. Non v’è dubbio che, al di là delle ragioni che poteva avere chi nel 2010 si era opposto agli accordi Fiat, la restart del Lingotto e la fusione con Chrysler hanno permesso all’Italia di non perdere la sua industria dell’auto. Allo stesso modo oggi, i sindacati hanno firmato un accordo con Arcelor Mittal che permette all’Italia di non perdere la sua siderurgia, asset strategico per la nostra industria.



Perché oggi su questa vertenza il sindacato è così compatto tanto che il referendum segna un risultato così alto? La vertenza Fiat è del 2010, l’anno più duro della crisi dell’economia italiana è stato il 2011: chiudevano 1.000 imprese al giorno, tanto che è del 2012 la storica frase di Susanna Camusso “bisogna salvare l’impresa per salvare il lavoro”.

Oggi, possiamo dirlo, il sindacato ha fatto un passo avanti importante: chi parla di crisi della rappresentanza sarebbe il caso osservasse cosa avviene nel comparto della manifattura, dove le organizzazioni sindacali in questi anni – in particolare nel settore metalmeccanico – vengono da dure vertenze, da riorganizzazioni aziendali profonde e da un’attività contrattuale multilivello che ha poi portato al grande contratto del 2016. La metalmeccanica vale quasi la metà dell’industria italiana. Tuttavia, anche nel settore chimico si registrano pratiche di contrattazione avanzatissime, tanto che la categoria è stata la prima anche stavolta (luglio 2018) ad aprire il ciclo dei rinnovi del ccnl.

Ma nella sostanza, in cosa consiste questo passo in avanti? La globalizzazione e la grande crisi economica ci hanno costretto a prendere atto che se vogliamo un futuro all’altezza del nostro passato, non possiamo prescindere dalla nostra industria, tanto che oggi persino chi ieri rappresentava il massimalismo sindacale si è posto a protezione dell’industria attaccata da associazioni, movimenti ambientalisti e non solo (si pensi a Grillo e Emiliano) che volevano la chiusura di Ilva. Dove c’è industria c’è lavoro. E, soprattutto oggi, dove c’è industria c’è un dinamismo importante sul territorio che partecipa tutto – dalle Università, alle Istituzioni, agli operatori di servizi per il lavoro, alla rappresentanza di impresa e lavoro, ecc. – alla crescita dell’impresa. L’industria è un bene per la comunità, il sindacato intero oggi lo ha realizzato.

Non diamo per scontato questo passaggio. La politica che avanza, che non è ostile all’impresa e all’industria, ha bisogno di un aiuto che la contrattazione gli può dare. La vicenda Ilva è di esempio.

Twitter: @sabella_thinkin

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