Aiuto, il sindacato perde pezzi, praticamente si sfalda. La cosa è sicura, perché lo dicono le agenzie di stampa ed è perfino stata pubblicata da Repubblica. Oddio, dipersé non farebbe troppo notizia il fatto che il giornale della “sinistra anti-operaia” periodicamente dedichi articoli al sindacato proclamandone la dipartita. Al limite farebbe gruppo con le pagine di quegli altri media che, con una cadenza pari al ritmo con cui sfilano i legionari il 14 luglio a Parigi e pur se in disaccordo su tutto lo scibile umano con il quotidiano di Eugenio Scalfari, non esitano pur’essi a gridare l’improvvisa scomparsa del “caro” defunto.



Verrebbe da rispondere, fossimo noi responsabili nazionali dei grandi sindacati confederali, rilanciando una celebre battuta di Winston Churcill: “Siamo in condizione di smentire con assoluta sicurezza la notizia circolata stamane sugli organi di stampa della nostra improvvisa morte”.

Cgil, Cisl e Uil non sono morti: magari non stanno benissimo, magari hanno le ossa rotte, magari ognuno di loro ha grandi e piccoli guai in casa o sull’uscio: ma non sono morti. Certo, come ha detto Repubblica, il numero degli iscritti è calato, ma siamo comunque, complessivamente, ancora nell’ordine dei 7-8 milioni di aderenti. Non sono più i 10 milioni di qualche anno fa? Certo, ma non sono nemmeno le pochissime decine di migliaia che partecipano alle libere elezioni della Repubblica di Bananas organizzate prima di ogni tornata sulla piattaforma online dei Cinque Stelle. Eppure in un caso basta un clic (o un “declic”), nell’altro si decide di dare giornalmente della propria carne e del proprio sangue alle Trade unions italiane.



Perché sono diminuiti i numeri degli aderenti? Per disaffezione? Ogni anno ci sono stati i desaficionados. Per dissenso? Certo. Per la pulizia degli archivi degli iscritti? Anche. E anche, diciamocelo, perché è finalmente finita l’assurda rincorsa che ogni 12 mesi portava ognuna delle tre centrali sindacali a proclamare di aver aumentato un po’ i propri numeri. Con relativa tentazione di barare.

Nessuna di queste motivazioni spiega, però, perché il sindacato starebbe morendo. Certo, le pulizie negli armadi, l’aver spolverate le sedi e fatto sparire gli scheletri che vi aleggiavano, hanno fatto venire alla luce strutture obsolescenti, riti che si credevano persi nella notte dei tempi, sguardi su un futuro che assomiglia tantissimo al ‘68. Ma questi anni hanno anche visto le tre centrali, Cgil, Cisl e Uil, impegnate in profondi rinnovamenti interni, sia di linea politica che di linguaggi e di obiettivi.



Sarà che per la prima volta ci sono due donne al potere (non ce ne voglia la Uil, ma per ora non vi sono proprio le condizioni minime per trarla entro questa parte del discorso), sarà che almeno una, Annamaria Furlan, ha saputo affrontare con polso fermo e sorriso materno una crisi devastante, sarà che sono cambiati i paradigmi, cioè i criteri di giudizio, sarà quel che sarà, ma il dato inequivoco è che alla mediatica e supposta emorragia di adepti corrisponde una reale e persistente presenza sul territorio, una pervasività negli ambienti di lavoro che da anni si aspettava, un’apertura al nuovo che molto ci dicono del dibattito interno alle tre confederazioni.

In fondo, se non vogliamo fare come i grillini e confondere definitivamente i like con i voti, da cosa si deve misurare la crisi sindacale: dal numero di iscritti? Potremmo darvi un milione di ragioni per dire che non basta, ma ce ne basta una. Le stesse voci che oggi proclamano la crisi di Cgil, Cisl e Uil gridavano le medesime rispettabilissime, ma non condivisibili, considerazioni alcuni anni orsono, quando i tre raggiunsero i 10 milioni di aderenti. Per cui delle due l’una: o sbagliavano allora o sbagliano oggi.

A nostro avviso, hanno “cannato” in entrambi i casi e comunque non si sono dimostrati certo profeti o analisti di vaglia. Al limite potremmo forse concordare che, così proseguendo, tra un qualche lustro, diciamo 50 anni?, potrebbero non esserci più iscritti al sindacato. No, il punto invece è che la crisi dei corpi intermedi interessa, come orizzonte di speranza, chi oggi dirige la politica nazionale, sia da destra che da sinistra, sia da sopra che da sotto. Nell’illusoria attesa che senza intermediazione “poi al popolo ci parlo io”. Ma il popolo, la gente, non è per nulla fessa: e se pure ascolta tutti, se pure vota secondo desideri reconditi (e mettendo alla prova quei politici che gli promettono di guadagnare molto con poca fatica o alternativamente, di guadagnare meno con nessuna fatica), sa che alla fin fine per tutelare i propri diritti, per provare a conquistarne di nuovi in tempi grami e avari, per fare quelle pratiche che la nuova Inps considera così alla portata di tutti da non doversene proprio occupare, ha a disposizione solo quei corpi intermedi di cui i governanti vedrebbero di buon occhio la scomparsa.

I corpi intermedi, cioè i sindacati, sono quella fastidiosissima realtà che non intende abdicare dal suo compito: hai voglia a dire che non c’è, a creare fake news, a celebrarne i funerali con dovizia di grancasse, ma quella realtà non si convince a sparire. Brutti, sporchi, cattivi, ma se 10.400 lavoratori all’Ilva ritroveranno il piacere di produrre e una ragione per alzarsi al mattino, non sarà stato perché Grillo ha sognato una futurissima Disneyland in salsa japigica, ma perché un manipolo di sindacalisti non ha mollato qui e oggi la presa, pur tra fischi e proteste.

Ed è così ogni giorno, in ogni paese di questo benedetto Bel Paese. Nuovi servizi, nuovi contratti in settori inesplorati, nuove tutele: non c’è che dire, il calabrone sindacale continua a volare. Per le leggi della fisica e del Web dovrebbe già essere scomparso, ma siccome lui non lo sa e non se ne cura, continua a volteggiare, poco agile ma tutto sommato utile e fiero di quel poco che può fare per questa nostra brontolante umanità.

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