Capire il ministro Di Maio quando avanza una proposta di riforma è una sfida per il pensiero razionale. Sembra essere la dimostrazione vivente che il percorso più breve per unire due punti non è la retta ma l’arabesco. Sulla proposta di chiusura dei negozi nei giorni festivi è partito da un no assoluto, poi rivisto con proposte tipo uno sì una no, però c’è la salvaguardia per i comuni turistici, poi dobbiamo tenere conto del parere di Salvini, ecc. Insomma, ha scoperto che l’Italia ha problemi turistici e che quindi una regola assoluta è impossibile. Che la contrapposizione grandi/piccoli commercianti funziona poco anch’essa, vale di più zona centrale o zona periferica. Ma quando il problema si fa complesso il nostro ministro si perde e non ritrova più il bandolo della matassa, né la via per uscire dal ginepraio che ha creato da solo.



Il tema però ha riaperto un dibattito che con regolarità alcune aree culturali e politiche hanno sollevato. Mi pare utile cercare di attenerci agli aspetti generali in attesa di capire quali saranno le proposte effettive che il Governo vorrà presentare. Che il lavoro sia scandito da sequenza di giorni lavorativi e periodi di riposo è un fatto ancestrale. Solo la schiavitù non prevedeva ciò. Ma la civiltà contadina seguiva i tempi della natura e poi lo sviluppo industriale ha rispettato i tempi biblici. In 6 giorni Dio creò il mondo e il settimo si riposò. Lo sviluppo economico e della produttività hanno permesso alle lotte sindacali di regolamentare il lavoro giornaliero e settimanale con orari tali da consentire un equilibrio di vita più sano e di conciliare lavoro, svago, affetti e il giusto riposo.



La prima richiesta di equilibrio furono le 8 ore giornaliere, 8 al lavoro, 8 alla famiglia e 8 per il riposo. Da qui si arriva poi all’orario settimanale delle quaranta ore e due giorni di riposo. Lo schema industrialista permetteva una gestione tayloristica che dalla fabbrica arrivava agli altri settori, commercio, tempo libero, ecc. Anche in quegli anni molti lavori non potevano seguire lo schema industriale. Sanità, assistenza, altiforni, piattaforme petrolifere sono solo alcuni esempi di operatività richiesta su 24 ore e per sette giorni alla settimana.

Per tali lavori, notturni e/o festivi, vi è sempre stato un riconoscimento legato a un incremento salariale talvolta abbinato a maggiori periodi di riposo. Lo sviluppo della società dei servizi ha poi ampliato maggiormente i settori in cui è richiesto lavoro quando il resto della società non lavora. I settori dei servizi ludici e del tempo libero ne sono l’esempio più lampante. I teatri lavorano quando gli spettatori possono frequentarli.



Per quanto riguarda il commercio valgono molto le tradizioni locali. Vi sono paesi dove da sempre gli orari sono molto compressi e altri dove gli orari estesi sono prassi che si perdono nella notte dei tempi. Dove sono ristretti vi è sempre stata una flessibilità per aperture ad hoc. La catena Seven-Eleven indica l’apertura giornaliera dalle 7 alle 23 per sette giorni su sette. Il ristretto orario dei pub inglesi è per contenere l’alcolismo. Sabato e domenica hanno orari più lunghi. E anche da noi nessuno ha pensato di limitare la tradizione delle trattorie della domenica, che pare occupino un discreto numero di persone.

L’esperienza ottenuta dalla liberalizzazione ulteriore che ha riguardato il settore in Italia ha determinato un incremento dei consumi e dell’occupazione. Ha seguito un cambiamento dei costumi, non l’ha generato. Certo i lavoratori coinvolti devono ottenere il giusto riconoscimento sia di tutela economica che dei diritti.

Come in tutto il mondo dovremmo però fare norme che favoriscano in questi casi l’occupazione di persone che necessitano di lavori part-time o lavori che servono per l’ingresso nel mercato del lavoro. Non necessariamente devono essere impieghi a vita, ma parti importanti dell’avvio della vita lavorativa delle persone coinvolte. La crescita del tasso di occupazione di un Paese passa anche per la tutela di posti di lavoro parziale perché vi è una quota dell’offerta di lavoro (pensiamo agli studenti) che non sarebbero disponibili per altri impieghi troppo rigidi. Il tema va quindi riportato alle tutele del lavoro e alla capacità degli imprenditori di sviluppare attività in grado di mantenere capacità relazionali. L’alternativa dell’e-commerce esiste già ed è in attesa di chiusure insensate per sviluppare un altro metodo di lavoro festivo molto meno gratificante.

Ho tralasciato volutamente richiami ideologici al divieto antropologico o religioso del lavoro festivo. È evidente che la crisi della famiglia, la capacità o meno di usare il tempo libero per scelte diverse dal consumo non nascono dagli orari dei negozi. Basta guardare la situazione delle chiese nei paesi dove gli orari commerciali sono più restrittivi per scoprire che l’impegno alla testimonianza non richiede la chiusura dei negozi, ma una presenza cristiana diversa sette giorni su sette. La chiusura dei centri commerciali non riporta al caro mondo antico, ma ci lascerebbe con le stesse domande di senso senza nemmeno il palliativo di comprarci una tavoletta di cioccolato.