“La persona che mantiene se stessa e la sua famiglia con il proprio lavoro sviluppa la sua dignità, il lavoro crea dignità”. Tali considerazioni di papa Francesco di qualche giorno fa non possono che essere condivise appieno. È lecito chiedersi che i giovani italiani, soprattutto quelli del Mezzogiorno, abbiano delle aspirazioni e dei sogni. Le generazioni prima di loro (soprattutto quella dei nonni) in molti casi sono riuscite persino a realizzare tali aspirazioni oppure a svolgere lavori che dessero una propria dignità; oggi per effetto di globalizzazione, debito pubblico e digitalizzazione tutto questo è diventato molto più difficile.
All’interno di tali difficoltà, è ovvio che tra i giovani abbia fatto breccia una proposta di un Reddito di cittadinanza (RdC), un sostegno di base volto a garantire la sussistenza e nel frattempo poter aspirare a un lavoro “coerente” con le proprie aspirazioni. Bellissimo! Peccato che uno strumento del genere costa (a spanne) oltre 40/45 miliardi di euro all’anno, quindi è economicamente insostenibile, a meno che si decida di aumentare Irpef e Iva di almeno il 20-30% e licenziare circa 200mila dipendenti pubblici.
In realtà, quello che verrà introdotto non sarà un vero Reddito di cittadinanza, ma nella più probabile delle ipotesi si tratta di un “potenziamento” (aumento della platea dei beneficiari) del Reddito di inclusione (che chiameremo Reddito di cittadinanza), strumento di assistenza sociale introdotto dal precedente Governo.
Nella proposta del Movimento 5 stelle il RdC è un sostegno “condizionato” a programmi di ricollocazione. Infatti, si perde in caso il beneficiario della misura rifiuti tre “offerte di lavoro” (ignoro entro quanto tempo: le offerte possono arrivare a decenni di distanza?) proposte dai Centri per l’impiego o non partecipi a un percorso di formazione e riqualificazione. Il tema della condizionalità, è complesso, dove è applicato da anni i risultati sono scarsi è poco incisivi (si collocano soprattutto coloro che hanno maggiore capacità e competenze e dove forse la condizionalità non serve neppure). Tuttavia, pensare che gli attuali Centri per l’impiego (comprese eventuali deleghe ai privati) siano in grado di offrire tre offerte di lavoro ai beneficiari del RdC è qualcosa di “inconcepibile”, come ben evidenziava tempo fa Nicola Porro all’attuale ministro Bonafede durante una trasmissione televisiva.
Semplicemente, questa parte delle proposta non sarà mai realizzata. In precedenza si proponeva di destinare due miliardi di euro per rinnovare i Centri per l’impiego, proposta certamente condivisibile, ma a quanto pare non più prevista dalla prossima finanziaria. In caso non fossero disponibili delle opportunità di lavoro, nella condizionalità il disoccupato potrà usufruire di un percorso di “riqualificazione” (è bene sottolineare che tali percorsi spesso sono più onerosi del sostegno al reddito) oppure frequentare attività formative, che in Italia non hanno mai prodotto grandi risultati e la loro gestione, soprattutto nel Mezzogiorno, è stata costellati da scandali di varia natura. Dunque non resterà altro ai beneficiari che svolgere attività socialmente utili e così rischiamo di creare un esercito di disoccupati assistiti a vita dallo Stato.
Certamente questi soggetti rifiuteranno lavori “poco desiderabili”, se il salario non sarà sufficientemente elevato, cosa che non potrà avvenire data la malattia dei costi che colpisce la produttività del lavoro in Italia. Dunque resteranno liberi soprattutto lavori poco-qualificati nei servizi (badanti, addetti alla pulizia, attività stagionali nel turismo, ecc.) con salari bassi o non molto lontani dal valore del Rei previsto dal Movimento 5 Stelle.
E riprendendo ancora le parole di papa Francesco, “i sussidi, quando non legati al preciso obiettivo di ridare lavoro e occupazione, creano dipendenza e deresponsabilizzano”, questo sistema rischia di creare una forte dipendenza sui beneficiari, una volta acquisito che tale sussidio è un “diritto” diventerà quasi impossibile (e soprattutto impopolare) toglierlo. Rischiamo di avere nel mercato del lavoro contemporaneamente un numero elevato di disoccupati e un elevato numero di posti di lavoro vacanti a bassa qualificazione. Tutto questo al netto delle strategie, che sicuramente verranno messe in atto, per ottenere più benefici all’interno del nucleo familiare, quali: “finti” divorzi, trasferimento di beni ad altri familiari, cambio di residenza, ecc.
Atteggiamenti già visti in tantissimi paesi europei, come la Danimarca. Quello “danese” è un caso studio in letteratura: si era creata una vera e propria “carovana dei benefici“: i destinatari rimanevano all’interno del sussidio per anni, fino all’ultimo mese disponibile, per poi miracolosamente ritrovare subito lavoro. Nel caso italiano, non avremo nemmeno questa possibilità: avremo all’interno del sistema un esercito di soggetti che resteranno a carico del sistema per decenni e il costo per finanziare il sussidio man mano che passeranno gli anni diventerà sempre più insostenibile e non permetterà di investire risorse in programmi di mobilità occupazionale, in sostegno ad attività auto-imprenditoriali o in progetti specialistici verso target deboli (ad esempio, persone a bassa titolo di studio), che invece sono proprio quello che abbiamo bisogno per dare dignità al lavoro.