Passati i mesi caldi di luglio e agosto, che hanno visto rispettivamente la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del decreto 12 luglio 2018 n.87 e la sua conversione con modificazioni dalla legge 9 agosto 2018 n.96, possiamo iniziare a fare le prime valutazioni sugli impatti che il Decreto dignità avrà sull’occupazione e il lavoro. Non ritengo necessario in questa sede esprimere un commento meramente tecnico del contenuto del decreto, in quanto le norme non sono belle o brutte in sé: ciò che conta è la corrispondenza tra le finalità perseguite e gli interventi giuridici proposti. Preferisco quindi offrire una prima lettura sugli effetti che queste nuove disposizioni stanno producendo nel mercato del lavoro.
Nella prima parte del decreto vengono principalmente apportate delle modificazioni restrittive all’utilizzo del contratto a tempo determinato e alla somministrazione di lavoro. Queste restrizioni consistono principalmente nel ridurre la durata dei contratti temporanei (massimo 24 mesi) e limitare le possibilità stesse di utilizzo reintroducendo le causali – ovvero l’obbligo di dichiarare le motivazioni eccezionali, non programmabili, temporanee e in alcuni casi estranee all’attività dell’azienda – per ricorrere al tempo determinato dopo il primo rinnovo e comunque dopo i 12 mesi di contratto. Inoltre, il contratto a tempo determinato e in somministrazione costerà lo 0,5% in più per ogni rinnovo.
I promotori della norma giustificano questo intervento con la necessità di contenere la precarietà nel mercato del lavoro, contrastando fenomeni di abuso della temporaneità occupazionale. L’equazione sarebbe quindi la seguente: limitando il ricorso ai contratti a tempo determinato aumenterà, come conseguenza, l’assunzione a tempo indeterminato. Purtroppo la realtà ci sta dicendo altro. Prendendo per vere tutte le considerazioni e i buoni propositi del Governo, risulta difficile capire perché si è intervenuti limitando le due tipologie contrattuali temporanee più tutelanti per i lavoratori. Condividendo il principio del “dobbiamo contrastare gli abusi della flessibilità contrattuale”, non è comprensibile il perché si sia voluto iniziare con delle forti limitazioni a due forme contrattuali che comunque prevedono il versamento pieno dei contributi Inps (assistenziali e previdenziali); applicano i contratti collettivi nazionali per regolare la parte normativa ed economica del rapporto di lavoro; sono caratterizzati dalla presenza, come nel settore della somministrazione, di un sistema di welfare bilaterale che eroga prestazioni sociali integrative, politiche passive e attive per il lavoratore. Indubbiamente non andava tutto bene, infatti anche attraverso il negoziato del rinnovo contrattuale del settore della somministrazione stavamo procedendo a porre correttivi, in particolare sull’abuso dei rapporti di lavoro brevi e reiterati, al fine di favorire maggiore continuità lavorativa.
La vera precarietà si annida nell’utilizzo selvaggio dei tirocini extracurriculari, nelle attività svolte dalle cooperative spurie, da tutto l’universo di finte partite Iva (lavoratori sulla carta autonomi ma in realtà dipendenti senza tutele), nel mondo del parasubordinato non regolato dalla contrattazione. Queste sono le situazioni sulle quali era necessario intervenire per contrastare i fenomeni più precarizzanti, nei quali però è rimasto tutto inalterato, anzi, senza alcuna logica si è incoerentemente deciso di riaprire all’utilizzo dei voucher.
Venendo ai primi effetti di questo decreto, se le aziende vengono limitate nella possibilità di proseguire con l’assunzione a termine di un tal lavoratore, esse non intraprendono percorsi di stabilizzazione, ma procedono con la sua sostituzione. Sono infatti tantissimi i casi in cui, soprattutto per figure medio basse, quindi facilmente intercambiabili, si è attivato un turnover esasperato. Pare quindi evidente che disincentivare economicamente e normativamente uno specifico comportamento (non fare contratti temporanei per tempi lunghi) è molto semplice, ma non è così agevole ricondurre a comportamenti virtuosi, soprattutto se non si possiede un’idea culturale di lavoro, anzi, se non si possiede del tutto la cultura del lavoro.
Da più parti mi viene posta questa domanda: è più degno un contratto di 36 mesi (il limite precedente), o un contratto di 24 mesi o addirittura 12 mesi (per non dover apporre la causale al contratto)? Lungi da me voler misurare la dignità di un lavoro dalla durata del suo rapporto contrattuale, ma oggi la questione centrale è come traduciamo occasioni di lavoro in opportunità, se quindi è possibile costruire percorsi occupazionali, professionali, partendo da un rapporto di lavoro anche temporaneo. Occorre quindi lavorare sull’occupabilità delle persone, sulle proprie competenze, sullo sviluppo di cognitive e soft skills, favorendo l’accesso a politiche attive realmente performanti.
Siamo nella situazione in cui nel mercato servirebbe maggiore continuità lavorativa, proprio per arricchire i percorsi di lavoro e rendere le persone più forti nelle transizioni tra un lavoro e l’altro, invece il decreto sta inducendo i datori di lavoro a ruotare come su una giostra il personale, invece di stabilizzarlo.
Come parti sociali crediamo di avere comunque la responsabilità di mettere in atto scelte coraggiose, anche controcorrente, ma che tengano conto del delicato equilibrio tra tutele dei lavoratori e libertà imprenditoriale delle aziende. A tal proposito come organizzazione sindacale cercheremo di rilanciare contrattualmente la somministrazione a tempo indeterminato, in quanto è esclusa dall’applicazione delle limitazioni scellerate del decreto e può essere sicuramente un punto di sintesi tra le necessità di sicurezza del lavoratore e l’esigenza di flessibilità delle aziende. Questo è solo un esempio di come i soggetti di rappresentanza del lavoro possono esprimere nuovamente un protagonismo per riaffermare la dignità (vera) del lavoro.
Siamo invece entrati in una fase dove la dignità è associata al possesso del concetto di “cittadinanza”: sei una persona degna solo se sei cittadino italiano, la dignità delle persone è salvaguardata se hanno il reddito di cittadinanza e i pensionati per essere giustamente gratificati devono avere la pensione di cittadinanza. Occorre oggi rimettere al centro il lavoro, come prima forma di cittadinanza, come primo fattore di socialità e relazione, oltre che di solidarietà, per la costruzione della singola soggettività e della comunità.