Se è noto che il recente “Decreto Dignità” (L. 96/2018), ha inciso sulla disciplina dei “tradizionali” rapporti di lavoro incrementandone le tutele, è probabilmente meno noto che tale decreto è intervenuto anche sulla materia dei rapporti di lavoro degli sportivi non professionisti e dilettanti, in questo caso riducendone le – già limitate – garanzie. La categoria dei dilettanti ricomprende tutti gli atleti, allenatori e istruttori della maggior parte delle discipline sportive che non si possano qualificare “professionistiche” mancando il riconoscimento in tal senso della federazione di appartenenza. Ai sensi della legge n. 91/1981, infatti, è considerato sportivo professionista colui che esercita l’attività sportiva a titolo oneroso, con carattere di continuità, nell’ambito delle discipline regolamentate dal Coni e secondo le previsioni distintive delle singole federazioni di appartenenza.



Attualmente tra le quarantatré federazioni sportive riconosciute dal Coni, soltanto quattro riconoscono lo status di professionisti dei propri atleti, oltretutto solo con riguardo agli sportivi di sesso maschile: Federazione Italiana Giuoco Calcio (peraltro soltanto dalla Seria A alla Serie C), Federazione Italiana Pallacanestro (solo serie A1), Federazione Ciclistica Italiana e Federazione Italiana Golf. Dal 2014 non riconoscono più lo status di atleti professionisti la Federazione Pugilistica Italiana e la Federazione Motociclistica Italiana. Tutti gli altri sportivi italiani, ovvero oltre 4,5 milioni di persone, a eccezione dei pochissimi “professionisti” riconosciuti (in tutto circa tremila), sono dunque da considerare ai sensi della predetta legge come “dilettanti”.



La distinzione tra professionismo e dilettantismo non è puramente nominale o dottrinale, ma ha rilevanti conseguenze pratiche, giacché mentre i rapporti tra enti sportivi e professionisti hanno una compiuta disciplina contenuta nella citata legge n. 91 del 1981, l’attività prestata a favore delle società sportive dilettantistiche, ancorché remunerata, è priva di una disciplina (e tutela) giuridica. In particolare, la legge 91/1981 prevede a favore dei professionisti l’applicabilità delle disposizioni dello Statuto dei lavoratori (ad eccezione delle norme relative ai controlli a distanza, agli accertamenti sanitari, alle sanzioni disciplinari, alle mansioni del lavoratore, ai licenziamenti) e delle disposizioni a tutela della maternità e sicurezza sul luogo del lavoro; e prevede altresì la tutela previdenziale e assistenziale tramite iscrizione alla gestione ex Enpals (Ente nazionale di previdenza e di assistenza per i lavoratori dello spettacolo) istituita presso l’Inps. Viceversa le prestazioni rese in favore delle associazioni e società sportive dilettantistiche (comprese le attività di formazione, didattica, preparazione e assistenza all’attività sportiva ex art. 35, co. del L. 14/2009) non hanno alcuna tutela giuridica specifica e sono regolamentate unicamente sotto il profilo fiscale; in particolare l’art. 67, comma 1 lett. m) del Tuir colloca nei “redditi diversi”, con conseguente esenzione contributiva, i compensi erogati nell’esercizio diretto di attività sportive dilettantistiche nell’ambito delle federazioni sportive riconosciute dal Coni e di attività di carattere amministrativo-gestionale di natura non professionale. Inoltre, ai sensi dell’art. 69 del Tuir, i predetti compensi non concorrono a formare il reddito per un importo complessivo nel periodo d’imposta rientrante nel limite di 10 mila euro.



Il vuoto normativo in materia, in particolare con riferimento all’inquadramento lavoristico delle prestazioni sportive dilettantistiche e, quindi, alla disciplina applicabile, ha dato adito a un consistente contenzioso giurisprudenziale. Tra le più significative sentenze si segnala la decisione della Corte d’Appello di Milano del 12.9.2017 avente a oggetto la qualificazione delle prestazioni rese da un gruppo di istruttori di acquagym, kung fu e altre attività sportive a favore di una società sportiva dilettantistica. In particolare l’Inps, a seguito di un’ispezione, aveva contestato alla società l’omessa iscrizione degli istruttori all’Istituto previdenziale, ex gestione Enpals, con conseguente omesso versamento dei relativi contributi, sul presupposto che le prestazioni avevano carattere abituale e professionale in quanto rese giornalmente e in modo sistematico. La Corte, confermando la sentenza di primo grado, annullava l’avviso di addebito emesso dall’Inps ritenendo che l’attività degli istruttori si era sostanziata in una collaborazione generica, tenuto conto che alcuni istruttori espletavano altri lavori mentre altri erano giovanissimi. Ne discendeva, quindi, l’applicabilità del trattamento fiscale agevolato e l’esenzione contributiva delle predette prestazioni.

Di segno opposto è invece la pronuncia del Tribunale di Teramo del 27.1.2015 che ha qualificato come subordinato il rapporto sussistente tra un calciatore e la Associazione Polisportiva dilettantistica Colonnellese (al tempo dei fatti iscritta al campionato calcistico nella categoria “Promozione”). In particolare, considerata l’onerosità della prestazione resa dal calciatore (che percepiva il compenso di 650 euro), la periodicità mensile della retribuzione, la mancata precedente individuazione di un risultato, lo stabile inserimento del calciatore nell’organizzazione imprenditoriale, la persistenza nel tempo dell’obbligo giuridico di mettere a disposizione della Polisportiva le proprie energie lavorative (nel corso di tre allenamenti settimanali e della partita domenicale) e il vincolo di soggezione del lavoratore/calciatore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, il Giudice ha condannato la Colonnellese al pagamento a favore del calciatore delle retribuzioni non corrisposte.

In questo contesto, nel tentativo di offrire una chiara e “minimale” disciplina di tali attività, il Legislatore con la Legge di Bilancio 2018 (L. 205/2017), comma 358, aveva stabilito che le prestazioni rese in ambito dilettantistico dovevano essere inquadrate nei contratti di collaborazione coordinata continuativa e che i compensi derivanti da tali attività costituivano “redditi diversi” ai sensi dell’art. 67 citato (nel caso di società sportive dilettantistiche senza fine di lucro) e redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente ai sensi dell’art. 50 del Tuir (nel caso di società dilettantistiche con scopo di lucro). Inoltre, il comma 360 della medesima legge prevedeva, ai fini previdenziali e assistenziali, l’iscrizione degli sportivi dilettanti e di tutti i collaboratori al fondo pensioni lavoratori dello spettacolo istituito presso l’Inps.

Senonché, proprio il “Decreto Dignità” è intervenuto in materia abrogando le predette norme che conferivano una, seppur minima, tutela legale alla categoria degli sportivi dilettanti che, come si è supra ricordato, annovera la stragrande maggioranza degli sportivi e la totalità delle sportive (in quanto, come si è rilevato, in Italia nessuna federazione femminile ha qualificato l’attività di riferimento come attività professionistica). L’auspicio è che si conferisca “dignità” anche al lavoro sportivo dilettantistico, in ossequio ai principi di uguaglianza e di promozione dello sport pur teoricamente professati dal Legislatore italiano e dai trattati internazionali.

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