Erano gli ormai lontani tempi del Governo Monti quando fu approvata la tanto avversata “Riforma pensioni Fornero” del sistema previdenziale, dal nome della professoressa chiamata, in quell’esecutivo tecnico, alla guida del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali. Quel provvedimento prevedeva l’estensione del metodo contributivo a tutte quelle persone che ne che erano state precedentemente escluse (cioè coloro che nel 1995 avevano già 18 anni di contributi versati) dalla Riforma Dini del 1995, introducendolo quindi a decorrere dal primo gennaio del 2012. Si operava anche l’aumento di un anno per il godimento delle pensioni di anzianità e l’abolizione delle cosiddette quote (somma di età anagrafica e anzianità contributiva).
Si immaginava poi l’allungamento graduale, entro il 2018, dell’età di pensionamento di vecchiaia delle lavoratrici dipendenti private da 60 anni a 65, per allinearle alle altre ipotesi. Si stabiliva, inoltre, che l’adeguamento all’aspettativa di vita (speriamo crescente), dopo quello del 2019, non sarebbe stato più a cadenza triennale, bensì biennale. Si riduceva, in questo quadro, da 18 mesi a 12 la “finestra” mobile per i lavoratori autonomi (equiparandoli, dunque, a tutti gli altri).
Ben 7 anni e molti governi sono passati. Sembra chiaramente emergere oggi una volontà dell’attuale maggioranza parlamentare giallo-verde di operare una contro-riforma a firma Di Maio-Salvini. Il famoso contratto per un governo del cambiamento dichiara che si dovrà provvedere all’abolizione degli squilibri del sistema previdenziale introdotti, secondo i sostenitori dell’esecutivo Conte, dalla riforma delle pensioni della Fornero, stanziando ben 5 miliardi per agevolare l’uscita dal mercato del lavoro.
Si immaginava, quindi, di dare, fin da subito, la possibilità di uscire dal lavoro quando la somma dell’età e degli anni di contributi del lavoratore è almeno pari a 100, con l’obiettivo di consentire il raggiungimento dell’età pensionabile con 41 anni di anzianità contributiva, tenuto altresì conto dei lavoratori impegnati in mansioni usuranti. In questa prospettiva si intendeva stabilire la proroga della misura sperimentale denominata “opzione donna”, per permettere alle lavoratrici con 57-58 anni e 35 anni di contributi di andare in pensione subito, optando in toto per il regime contributivo.
Oggi le promesse/proposte elettorali sono chiamate a diventare, almeno un po’, realtà. È arrivato, infatti, il tempo di approvate la Legge di bilancio che rimane certamente l’atto più importante per un Governo, specialmente se neo-eletto. I ridotti spazi per nuova spesa pubblica, e le difficili coperture da trovare per il provvedimento, fanno, tuttavia, immaginare scelte sicuramente più modeste di quelle con le quali ci si era presentati in campagna elettorale. Basteranno iniziative chirurgiche a soddisfare un elettorato che chiede a gran voce la contro-riforma delle pensioni e che è sembrato, almeno finora, premiare un’azione di governo spesso a costo zero?