La Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo l’articolo 3, comma 1, del Jobs act (decreto legislativo 23/2015) sul contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, nella parte – non modificata anche dal successivo “decreto Dignità” (dl 87/2018) – che fissa in modo rigido l’indennità che spetta a un lavoratore in caso di licenziamento ingiustificato. Secondo la Consulta, la previsione di un’indennità crescente in ragione della sola anzianità di servizio del lavoratore è contraria ai princìpi di ragionevolezza e di uguaglianza e contrasta con il diritto e la tutela del lavoro sanciti dagli articoli 4 e 35 della Costituzione. Tutte le altre questioni relative ai licenziamenti sono state invece dichiarate inammissibili o infondate. E la sentenza sarà depositata nelle prossime settimane.



Ma cosa prevedeva l’articolo 3 del Jobs act? “Il giudice (…) condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità”. Cosa cambia da oggi? E quali impatti avrà questa decisione sul mercato del lavoro? Lo abbiamo chiesto ad Arturo Maresca, ordinario di Diritto del lavoro presso l’Università La Sapienza di Roma.



Professore, che cosa succederà adesso?

Oggi abbiamo un minimo di 6 e un massimo di 36 mensilità di indennità e sarà il giudice, essendo saltato solo il criterio di determinazione dell’indennità da erogare, che potrà scegliere se dare 6 o 36 mesi, anche a uno che è stato licenziato sei mesi dopo l’assunzione.

Una scelta discrezionale del giudice, caso per caso?

La scelta non è ovviamente arbitrio del giudice, perché dovrà essere motivata. Non più con riferimento all’anzianità, ma con parametri oggettivi. Almeno questo è quello che si evince dal comunicato di ieri, in attesa delle motivazioni.



I parametri oggettivi a cui lei fa riferimento sono da rideterminare?

No. Certo, sarebbe auspicabile un intervento del legislatore. Ma oggi – facciamo questo esempio – se un giudice deve decidere una causa come si comporterà? Secondo me, però – ripeto – bisognerebbe leggere le motivazioni della Consulta -, dovrebbe decidere se dare, sei, sette, otto o 36 mesi. E dovrebbe motivare la sua decisione, perché lo farebbe in base ai princìpi generali del sistema, tenendo conto anche dell’anzianità, dei numeri dell’azienda eccetera. In pratica mutuerà quelli che erano i vecchi principi dell’articolo 18 sulla quantificazione dell’indennità.

La decisione della Consulta, come ha dichiarato il ministro del Lavoro Di Maio, può essere letta come una bocciatura del Jobs act?

No, non è così, perché non salta nulla. È tutto confermato, resta tutto così come era scritto. Resta il minimo, resta il massimo, resta la monetizzazione. Viene meno solo il criterio in base al quale si determina l’indennità: con il Jobs act era un automatismo collegato all’anzianità di servizio, che imponeva di dare un certo numero di mensilità a fronte di un’anzianità crescente.

Che impatto avrà, secondo lei, questa decisione sul mercato del lavoro?

Quello che atterrirà le imprese è che da oggi potranno avere un giudice che condanna al massimo dei 36 mesi. Le imprese avranno così ancor più problemi a fare contratti a tempo indeterminato. Già ce ne avevano, ora immagini che un licenziamento può costare a un’impresa di 16 dipendenti un’indennità di 36 mesi al primo anno.

(Marco Biscella)

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