Nella falegnameria di Sergio Seghetti lavorano una ventina di dipendenti, la cui bravura ed esperienza assicura quella qualità del prodotto che in questi anni ha consentito all’azienda di risentire solo in misura minima degli effetti negativi della crisi. Sergio è contento, e anche i lavoratori sono soddisfatti: il lavoro certo è faticoso, ma la paga è buona e con il datore di lavoro c’è un bel rapporto.
Negli ultimi tempi, però, si è verificato un fatto spiacevole. Artemio Forte – uno degli operai più anziani e bravi – non sta bene: sul lavoro accusa continuamente stanchezza e le sue assenze per malattia sono sempre più frequenti. Al termine dell’ultimo periodo di assenza, durato oltre 60 giorni, come previsto dalla legge Artemio si è fatto visitare dal medico competente, il quale ha però emesso la peggiore delle “sentenze”: inidoneità permanente al lavoro.
Artemio non vuole crederci … e subito ricorre contro quel giudizio, avanti all’apposita Commissione medica istituita dalla Asl, ai sensi dell’articolo 41, comma 9, Dlgs n. 81/2008. Questa però conferma: sussiste inidoneità permanente al lavoro. Sergio deve prendere atto della situazione: quei provvedimenti, infatti, gli impediscono di far riprendere ad Artemio il lavoro; né in azienda vi è possibilità di assegnargli altre mansioni, compatibili con il suo stato di salute.
Suo malgrado, quindi, l’imprenditore convoca il dipendente preannunciandogli che dovrà comunicargli il licenziamento per sopravvenuta inidoneità al lavoro.
“Aspetta – gli chiede però Artemio –, aspetta qualche settimana, perché ho richiesto alla Commissione di espletare una nuova visita, e di compiere una nuova valutazione sulla base dei nuovi esami e della perizia del professor Bravissimi, noto luminare, il quale dimostra che, in realtà, il mio stato di inidoneità al lavoro non è permanente, ma solo temporaneo”.
Il giorno dopo Sergio si reca dal suo consulente, al quale aveva già chiesto di preparare la lettera di licenziamento, comunicandogli che ha acconsentito alla richiesta di Artemio, e che quindi attenderà l’esito della seconda verifica, prima di decidere se risolvere rapporto.
“Hai fatto bene – gli conferma il consulente -: la tua decisione è del tutto condivisibile, non solo per motivi etici, ma anche sotto il profilo giuridico. Con la recente sentenza n. 20468/2018, la Cassazione ha infatti ribadito che il giudizio espresso dalla Commissione medica è sempre sindacabile in sede giudiziaria: meglio, quindi, essere prudenti, e aspettare anche questo secondo passaggio, che quantomeno ti assicura una verifica più approfondita e meditata. Infatti, se Artemio dovesse impugnare il licenziamento, e il giudice ritenesse di dar ragione al professor Bravissimi, saresti condannato alla reintegra, con tutte le conseguenze previste dall’articolo 18, comma 4, dello Statuto dei Lavoratori”.
“Poco male – risponde Sergio –, vorrà dire che riprenderò Artemio al lavoro”.
“Sì – replica il consulente –, però una simile condanna sarebbe pesante anche dal punto di vista economico, perché per il periodo in cui non ha lavorato dovresti pagargli una cospicua somma (sino a un anno di stipendio) a titolo di risarcimento danni per le retribuzioni perse, e versare i contributi previdenziali calcolati sull’intero periodo”.
“Ma – replica Sergio – come posso essere ritenuto responsabile per danni, solo per aver agito in base a una valutazione della Commissione medica della Asl?”.
In effetti la Cassazione si è posta il problema e ha confermato che, come già sancito da precedenti sentenze, almeno il risarcimento dei danni per retribuzioni perse può non essere riconosciuto al lavoratore, in applicazione del principio generale dell’articolo 1218 del Codice civile, “secondo cui il debitore non è tenuto al risarcimento del danno nel caso in cui fornisca la prova che l’inadempimento consegue ad impossibilità della prestazione a lui non imputabile (cfr. Cassazione n. 11477 del 2015, n. 9915 del 2016, n. 1950 del 2011, nn. 3114 e 8364 del 2004)”.
Tuttavia, nel valutare la prova offerta al riguardo, la stessa Suprema Corte si dimostra piuttosto severa. La citata sentenza n. 20468/2018, invero, ha confermato la condanna di un datore di lavoro anche al risarcimento per retribuzioni perse, in una fattispecie nella quale – nonostante che il lavoratore si fosse opposto alla valutazione di inidoneità espressa dalla Commissione medica, chiedendo (come ha fatto Artemio) la fissazione di un nuovo Collegio medico – il licenziamento era stato intimato senza attendere la nuova valutazione, all’esito della quale il primo giudizio era stato ribaltato.
Sergio ha quindi agito bene, e alla fine, in cuor suo, spera che la Commissione dia ragione al professor Bravissimi, e che Artemio sia in grado di riprendere il lavoro. Se però, anche in occasione della seconda verifica, la Commissione dovesse confermare il giudizio di inidoneità permanente, e quindi la necessità di procedere al licenziamento (perché davvero la possibilità di rioccupare Artemio in altre mansioni non sussiste), qualora il lavoratore volesse comunque ribadire la sua posizione, effettivamente si porrebbe il problema della contestabilità in giudizio della valutazione della Commissione, e dunque della possibilità che il giudice possa ribaltare detta valutazione, pronunciando una sentenza di reintegra le cui conseguenze economiche potrebbero essere solo in parte limitate: anche qualora esonerato dall’obbligo di risarcire al lavoratore il danno per le retribuzioni perse nel periodo tra il recesso e la pronuncia giudiziale, rimarrebbero infatti fermi sia l’onere di pagare i contributi per quello stesso periodo, sia il diritto, concesso al lavoratore in tutte le ipotesi di reintegra, di non ritornare al lavoro, recedendo dal rapporto, con conseguente obbligo del datore di lavoro a pagargli 15 mensilità di retribuzione.
I datori di lavoro, quindi, devono prestare particolare attenzione, prima di intimare un licenziamento per sopravvenuta inidoneità al lavoro: la disciplina – molto attenta alla tutela del dipendente – risulta particolarmente severa. E soprattutto non offre, in concreto, soluzioni “sicure”, neppure a coloro che agiscono in perfetta buona fede.