Dicono che il solo modo per prendere un treno in orario sia quello di perdere il treno precedente. A pensarci bene è quanto è capitato alle grandi confederazioni storiche. In tutt’altre faccende affaccendate (la Cgil aveva in corso il XVII Congresso), non avevano svolto alcun ruolo nel contesto della manovra di bilancio, salvo essere convocate dal premier ormai a cose fatte. Addirittura il mondo dell’impresa, direttamente o indirettamente (con le madamine torinesi) aveva alzato la voce e promosso delle iniziative. Poteva dire di averci provato, anche se, di contropartita, aveva ottenuto soltanto l’offerta di un caffè, al Viminale, ospiti del ministro Matteo Salvini. Quanto al merito dei problemi, erano volate solo qualche promessa e qualche pacca sulle spalle.
Pesava nell’atteggiamento dei sindacati lo shock prodotto dalle elezioni del 4 marzo e l’incertezza nel giudicare le nuove forze vittoriose e le loro proposte, talune delle quali suonavano a orecchio le “prediche inutili” che Cgil, Cisl e Uil avevano rivolto ai governi precedenti. Insomma, dalle urne era uscita una coalizione inedita, votata, nelle sue componenti, anche da tanti lavoratori e persino da iscritti ai sindacati. Il dubbio che, tutto sommato, queste forze politiche fossero amiche (o, come si diceva una volta, “nate da una costola della sinistra”) attraversava in lungo e in largo il dibattito dei gruppi dirigenti. Poi, alla fine, è prevalsa una linea di lotta.
Così il movimento sindacale si è trovato, con la manifestazione del 9 febbraio, non più impegnato a salvarsi la coscienza per le sue passività e titubanze (com’era lecito pensare quando venne presa la decisione), ma schierato all’avanguardia per arrestare e invertire il declino – purtroppo non solo economico e produttivo – del Paese, nelle sue istituzioni politiche e civili. In sostanza, dopo il 9 febbraio, l’opposizione ha trovato una guida, una leadership. Quando parliamo di opposizione non intendiamo riferirci ai partiti che stanno in Parlamento, ma a un complesso di forze sociali, culturali, economiche che si stanno rendendo conto dei disastri provocati dall’attuale Governo, senza che finora si sia materializzata una qualche forma di contrasto.
Se le cose non sono precipitate prima, il merito è dell’Unione europea che ha imposto una ritirata precipitosa alle forze sovranpopuliste e dell’alta supervisione del Quirinale che ha potuto correggere gli svarioni più gravi. I “nostri” però hanno deciso di perseverare nelle loro scelte fallimentari, ignorando una realtà che presenta ogni giorno un conto sempre più oneroso: il Paese è in recessione; il quadro macroeconomico, strampalato, su cui si è basata La legge di bilancio sta sfumando sotto i nostri occhi; nel 2019 non vi sarà la crescita stimata (ancorché ridimensionata) a meno che – cosa non solo improbabile ma impossibile – i prossimi trimestri non realizzino tassi di crescita “cinesi”.
L’occupazione langue e non riuscirà a sollevarne le sorti il combinato disposto tra quota 100 (e dintorni) e il reddito di cittadinanza. Per di più siamo giunti a un passo dalla rottura delle relazioni diplomatiche con la Francia, non abbiamo più una politica estera univoca, ma ognuno dice la sua, ad eccezione del ministro degli Esteri (che dichiara di non essere informato). Quanto è successo nei giorni scorsi a Vicenza è di una gravità inaudita. I due vicepremier hanno delegittimato il vertice di Banca d’Italia in pubblico, davanti ai risparmiatori che pretendono di essere risarciti dallo Stato per la loro dabbenaggine.
Anche in questa scivolata istituzionale (come in altre poi riciclate dalla maggioranza giallo-verde) Matteo Renzi “ha fatto scuola” a suo tempo; ma per fortuna Paolo Gentiloni non abboccò. Certo, nessuno è inamovibile, neanche nel Palazzo di via Nazionale; ma l’aria che tira è quella di mettere dei “fedelissimi” nei ruoli istituzionali di garanzia, degli yes men pronti “a obbedire tacendo”. Magari anche a privare il Paese delle sue riserve auree, come hanno fatto capire alcuni discorsi di ieri, buttati lì “un po’ per celia e un po’ per non morir”.
Tornando ai sindacati, le confederazioni sono le uniche forze in grado di sollevare dal fango le bandiere lasciate cadere dai sovranpopulisti, di recuperare, da sotto le macerie, la dignità necessaria a un popolo civile. È un compito nuovo, insolito per il sindacalismo italiano nel dopoguerra. Ma a chiederlo è il Paese.