Solo a inizio mese il Cnel, presentando uno studio sullo stato di salute del nostro mercato del lavoro, sottolineava come ben oltre 3 milioni di lavoratori (ma si arriva a 5,2 se si considera il reddito annuale invece di quello mensile) e 2,2 milioni di famiglie risultano povere nonostante almeno un componente sia occupato. Non è, quindi, poi così sbagliato parlare di un lavoro più povero e frammentato.
Secondo i dati illustrati in quella sede, la diffusione della povertà tra i lavoratori è legata alla persistente bassa competitività del sistema, al minor numero di ore lavorate, alla precarietà dell’occupazione, all’impiego di manodopera poco qualificata e alle scelte (poco coraggiose e innovative?) di alcune aziende per il contenimento dei costi.
Nel periodo compreso tra il 2014 e il primo semestre 2018 si evidenzia come la crescita dell’occupazione, oltre che al part-time, resti ancora ancorata ai lavori a tempo determinato, aumentati del 35%, pari a 800mila lavoratori, mentre una crescita moderata si registri, nonostante il Jobs Act e le tutele crescenti, per i lavori a tempo indeterminato (+460 mila), mentre risulta un calo deciso del lavoro autonomo (-117 mila). Dal punto di vista, poi, della qualità del lavoro e dei contratti, il Cnel rileva come sia cresciuto il part-time involontario (soprattutto per le donne e nel Mezzogiorno) e come sia, purtroppo, diminuita la qualificazione professionale e gli occupati con qualificazione medio alta.
Un quadro non dissimile ce lo offrono i dati “integrati” presentati lunedì dal ministero del Lavoro. Sebbene, infatti, nella media del 2018 il numero di occupati superasse il livello pre-crisi del 2008 di circa 125 mila unità e il tasso di occupazione sfiorasse il record di 58,5%, non si può sottacere che il tasso di disoccupazione si attestasse lo scorso anno al 10,6%, inferiore di 0,6 punti rispetto all’ anno precedente ma superiore di 3,9 punti rispetto al “mitologico” 2008.
La ripresa, insomma, dei livelli di lavoro richiesti, a ritmi meno intensi, prosegue con una crescita occupazionale, parimenti “a bassa intensità lavorativa”. Se, quindi, il numero di persone occupate ha recuperato il livello del 2008, la quantità di lavoro utilizzato è ancora inferiore. Nella media dei primi tre trimestri del 2018 rispetto ai corrispondenti del 2008, il Pil è stato, difatti, del 3,8% al di sotto del livello pre-crisi e le ore lavorate lo sono state del 5,1%. Per colmare il gap mancherebbero ancora poco meno di 1,8 milioni di ore e oltre un milione di Unità di lavoro a tempo pieno (Ula) che poi sarebbero lavoratori, cittadini e persone.
Da questa fotografia in bianco e nero dovrebbe partire ogni seria riflessione sulle ragioni dei fallimenti delle diverse riforme del mercato del lavoro messe in campo nell’ultimo decennio e, probabilmente, anche di quella “in progress” e non dalla rivendicazione di “record” più o meno importanti attribuiti alla propria parte politica.