Il quadro del mercato del lavoro del 2018 offerto dalla pubblicazione dei dati curata da Istat con Inps, Inail, Anpal e ministero del Lavoro, ha confermato una situazione di pre-difficoltà. Dopo il ritorno del tasso di occupazione al livello del 2008, anno di avvio della crisi economica, sono emersi segnali di rallentamento e di frenata. Il dato di fondo è già stato messo in evidenza da molti commentatori. I segnali economici internazionali dicono che vi è una frenata negli scambi. Da qui una diminuzione della domanda di beni che porta i principali paesi europei a una contrazione della crescita. Per un Paese esportatore come il nostro, il calo della domanda internazionale significa immediatamente una contrazione della produzione industriale con relativa frenata nel Pil.
In questo quadro internazionale si sono inserite le scelte politiche a favore di un nuovo deficit pubblico per sostenere i redditi (reddito di cittadinanza e quota 100 per i prepensionamenti) e una gelata su investimenti pubblici e privati. Ciò ha prodotto un calo della domanda di lavoro e un nuovo arresto nel calo della disoccupazione. Il saldo dato dal quadro del 2018 è ancora quello di avvio della discesa. In fondo il dato è ancora di un Paese che sta producendo posti di lavoro con un tasso di elasticità che, grazie alle riforme fatte, è cresciuto fra il 2015 e il 2018 creando nuova occupazione anche con tasso superiore a quanto prima era determinato dalla crescita del Pil.
Assieme ai dati Istat è stata presentata anche un’analisi fornita dal centro studi della Banca d’Italia relativa allo stato di salute della crescita avvenuta nel nostro mercato del lavoro. Il quadro che ne esce non è certo incoraggiante. È positiva la costante crescita dell’offerta di lavoro. In un Paese con basso tasso di occupazione la crisi aveva ulteriormente contenuto il numero delle persone attive. La crescita della domanda degli ultimi anni ha permesso di riportare e portare al lavoro molti che lo chiedevano. Il tipo di lavoro non è però confrontabile con quello precedente l’avvio della crisi. A parità di occupati sono diminuite le ore lavorate complessivamente che restano ancora per un 10% inferiori al 2008.
I due dati che caratterizzano questo magro risultato sono quelli relativi alle assunzioni a tempo determinato e al tasso di occupati con part-time involontario. Nonostante l’impegno a riformare alcuni aspetti delle rigidità contrattuali che caratterizzavano le relazioni lavorative italiane, le imprese hanno proseguito in una scelta per la flessibilità e la sottoccupazione. Il risultato è che la percentuale di lavoratori dipendenti con occupazione a tempo determinato è salita per tutto il periodo con un’accelerazione nell’ultimo biennio e ha raggiunto il 18%. Il ricorso al part-time involontario è raddoppiato negli anni della crisi passando dal 6% al 12% degli occupati ed è calato leggermente negli ultimi due anni. Mentre per quanto riguarda il ricorso al tempo determinato siamo in linea con altri paesi europei (pari con la Francia e quasi il 10% in meno della Spagna), siamo invece primi nel tempo parziale involontario (2% in più della Spagna e 3,8% in più della Francia).
Questi dati confermano l’analisi presentata da Istat per quanto riguarda la sottoccupazione rilevata. Abbiamo oltre un milione di sottoccupati, pari al 4,4% della forza lavoro. Dobbiamo pertanto lavorare ancora per aumentare la partecipazione attiva della popolazione in età lavorativa (6 milioni di potenziali lavoratori sono ancora fuori dall’occupazione) e un milione di persone lavorano meno di quanto sarebbero disponibili a lavorare. La sottoccupazione non è come sempre uguale per tutti. Quel 4,4% è pari al 2,5% fra i lavoratori con professione qualificata impiegatizia, mentre arriva all’11% negli impieghi di bassa mansione manuale.
Non stupisce quindi che la maggior presenza di lavoratori con part-time involontario è di oltre il 25% fra chi ha il 10% di probabilità di essere povero e scende al 5% fra chi ha minore probabilità. Allo stesso modo risulta interessare oltre il 20% della forza lavoro del mezzogiorno mentre resta inferiore al 15% nel nord del Paese.
La crescita dell’offerta di lavoro nel corso di questi anni (le analisi escludono che sia da ricondursi ai fenomeni migratori in atto) in assenza di una domanda cresciuta assieme a una nuova produttività, ha messo in moto un meccanismo che riporta all’esercito industriale di riserva messo in luce da K. Marx nell’analisi della rivoluzione industriale. Il sistema produttivo italiano è in forte ritardo negli investimenti di modernizzazione. Sarebbero servite negli anni passati riforme decise per aumentare la produttività del sistema: riforme della Pubblica amministrazione e della giustizia, un più deciso sostegno agli investimenti pubblici in infrastrutture e investimenti privati per la modernizzazione sistemi produttivi. Ciò è mancato o è fortemente in ritardo. Si è perciò assorbita occupazione con impieghi (e salari!) non in linea con quanto sarebbe stato necessario.
Oggi però sarebbe sbagliato frenare o limitare la partecipazione accresciuta al mercato del lavoro. Un piano straordinario per il lavoro passa per una politica economica e una politica industriale che puntino su forti investimenti, modernizzazione produttiva, e un patto sociale che porti a una crescita decisa della produttività per avviare una politica redistributiva che premi il lavoro contro le rendite e le passività sociali indotte.