Il provvedimento che ha come obiettivo quello di abolire la povertà è entrato in funzione. Le domande per ottenere il reddito di cittadinanza sono in corso e incomincia a delinearsi il popolo che senza un sussidio non riesce a tirare fino a fine mese. Certo vi sono in coda persone abituate a vivere al di fuori della legge come gli appartenenti a famiglie di clan malavitosi registrati a Ostia, ma emerge anche che dove l’economia è più debole e più grigia vi sono alcune rinunce per poter proseguire a sopravvivere nell’area grigia dell’economia piuttosto che essere obbligati ad accettare un lavoro regolare, anche dal punto di vista fiscale.
Sì, perché già in questa prima fase emerge come questo provvedimento cerchi di perseguire troppi obiettivi e rischi di creare solo una distribuzione di fondi senza innescare quelle politiche necessarie ad aiutare chi fruirà del reddito a superare le ragioni strutturali che lo trattengono nella fascia bassa della società. Per chi necessita di un intervento rafforzato dei servizi sociali perché è da debolezze o dipendenze che deriva uno stato di mancata inclusione nei percorsi lavorativi, il provvedimento avviato ha impegnato poco i Comuni, che sono i responsabili degli interventi sociosanitari. È certo peraltro che un piano di inserimento sociale non può essere gestito dai Centri per l’impiego.
Servirebbe quindi una capacità di fare rete fra servizi che si occupano di aiutare a superare le fragilità sociali di singoli e famiglie e quindi avviare un dialogo con quanti invece si occupano di creare percorsi di formazione per nuovi inserimenti lavorativi. Tutto ciò rischia di creare nuovi livelli di diseguaglianza fra poveri nell’accesso ai servizi e nel dimostrare che il livello di reddito assicurato non falsa il diritto all’accesso ad altri servizi complementari a partire dall’abitazione.
Il provvedimento ha però fin dall’inizio puntato a volersi presentare come una politica di lotta alla povertà attraverso il moltiplicarsi delle occasioni di lavoro offerte ai beneficiari del reddito di cittadinanza. È proprio per questo che la diatriba Stato-Regioni sui navigator ha avuto un impatto anche nei mezzi di comunicazione. I famosi navigator proposti dal prof. Parisi dal Mississippi e sostenuti dal ministro del Lavoro Di Maio erano la vera novità. Un corpo scelto di operatori capaci di entrare nel mercato del lavoro e trovare in breve tempo tre offerte di occupazione a tutti coloro che godevano del reddito e che avevano dichiarato al Centro per l’impiego la loro disponibilità a lavorare.
È stata questa la risposta organizzativa a chi, ribattezzando il provvedimento come reddito di poltronanza (posizione Lega Nord), ritiene che il risultato dell’operazione sarà favorire un ritiro della partecipazione attiva al mercato del lavoro di chi ritiene più conveniente il reddito di cittadinanza al salario possibile. La proposta si è però arenata nello scontro Stato-Regioni visto che il piano proponeva una selezione nazionale per contratti a termine di personale poi assegnato alle Regioni. In forza del fatto che le politiche del lavoro sono di competenza regionale, la partita si è arenata e la soluzione finale è stata un dimezzamento del numero complessivo di navigator, che non saranno però operativi negli uffici territoriali, ma affiancheranno e daranno supporto ai servizi già forniti dai Cpi. In più si dovrà scrivere il contratto di lavoro in modo tale che non si creino nuovi diritti a essere inseriti nella Pa alla fine dell’esperienza dei navigator. Quindi non potranno essere inseriti nei Cpi a rafforzare il personale impegnato nel cercare nuove opportunità lavorative e non potranno avere ruoli in programmi coordinati da uffici locali per non fare maturare diritti futuri.
A questo punto il provvedimento che voleva puntare a essere una nuova forma di politica attiva per il lavoro rischia di essere solo una distribuzione di reddito senza condizionalità. Sarà inoltre meno efficace di altri provvedimenti negli interventi che chiedono un coordinamento con i servizi sociali dei comuni. Non stupisce allora che l’inventore del sistema, il Prof. Parisi, nel frattempo diventato presidente dell’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro e della controllata società di servizi, appaia più simile al protagonista di Quo vado di Checco Zalone che a un esperto di mercato del lavoro italiano.
Grazie anche alla sua pronuncia di italo-pugliese è riuscito a dare risposte prese dalle sceneggiatura del film nel corso dell’audizione in commissione parlamentare. E così abbiamo appreso non solo che il lavoro determinato non può essere assimilato al lavoro precario (essendo questo solo il lavoro in assenza di regole), ma anche che se almeno i navigator riuscissero a piazzarsi loro con un contratto a tempo indeterminato sarebbe un bel risultato da attribuire alla nuova scelta di politica del lavoro.
Il lungo silenzio in cui è caduto il professore dopo queste brillanti uscite fatte in audizione ci dice che qualcuno gli ha ricordato il detto che è bene tacere quando non si conosce a fondo il tema sui cui si è interrogati.